Con Giurato n. 2 (Juror # 2, 2024) Clint Eastwood torna dietro la macchina da presa per raccontare, con l’impatto della sua regia tesa e limpida, il difficile rapporto tra la giustizia e la verità. Mentre il precedente lungometraggio Cry Macho – Ritorno a casa non aveva convinto a pieno la critica rivelandosi un insuccesso al box office, il nuovo film riceve recensioni molto positive, trattandosi di un esito espressivo di grande affilatezza dove il tema della colpa e quello dell’innocenza si ritrovano nella forma di un legal thriller straordinariamente ricco di spunti e calibrato nei suoi millimetrici tempi cinematografici. Eastwood mette tutto se stesso e ritrova la forma migliore, elabora l’intreccio grazie a una sceneggiatura impeccabile e spinge lo spettatore a fare i conti con quel legame di colpevolezza che affonda nelle parti oscure o rimosse. Come in una tragedia, i toni diventano universali, e la colpa in quanto responsabilità dell’individuo chiamato a portare il suo contributo alla convivenza civile si confronta con quella statua della dea Themis, con bilancia e spada, più volte inquadrata nel film, simbolo persistente di una dimensione che coinvolge molti aspetti. Su di essi semina indizi il quarantaduesimo film diretto da Clint Eastwood a cui preme suggerire come la giustizia sia condizionata da posizioni sociali, credenze, aspettative, atteggiamenti, con cui bisogna fare i conti prima di scagliare sentenze.
Il protagonista è Justin Kemp (Nicholas Hoult), chiamato a fare il suo dovere di giurato in un processo che vede indagato James Sythe (Gabriel Basso), accusato di aver assassinato la sua compagna alla fine di una litigata in un locale.
È trascorso un anno da quei fatti e Justin, con un passato da alcolista, ricorda che quella sera nel locale c’era anche lui; si trovava solo e afflitto perché quel giorno la moglie aveva perso i due gemelli di cui era in attesa, e, di ritorno verso casa con la pioggia scrosciante, distratto dal telefono cellulare e dai tormenti, aveva investito qualcosa, mentre la segnaletica stradale gli aveva fatto pensare di aver colpito un cervo, anche perché non aveva trovato nulla scendendo dall’auto.
Oggi Sythe, un ex spacciatore di droga, è facilmente additabile come l’assassino della fidanzata. Quella sera venne visto e ripreso mentre litigava con lei che, dopo aver lasciato il locale, sarebbe stata ritrovata morta e buttata giù da un ponte.
Ascoltando la prima ricostruzione dei fatti che vedono accusato Sythe, Justin rammenta che quella sera anche lui si trovava di passaggio su quel ponte e che forse l’impatto che coinvolse la sua auto non era stato con un cervo di passaggio come egli aveva creduto. Justin, nel suo compito di cittadino chiamato a dare il suo contributo a una comunità che gli ha permesso il reinserimento dopo il suo passato non proprio limpido, si ritrova precipitato in un intreccio morale su cui aleggia una domanda in linea con la natura indomita del film: cosa fare?
Nonostante quella sera Justin non avesse bevuto un goccio, il cinico avvocato con cui si confida (Larry Lask interpretato da Kiefer Sutherland) gli prospetta trent’anni di carcere se non verrà trovato presto un colpevole. E Justin, che vuole salvarsi, si trova travolto nel mare ondoso della doppiezza, preme per salvare un innocente, che tuttavia non lo è del tutto, non è uno stinco di santo, è molto odiato da chi nella sua commissione di giurati ha avuto a che fare con la sua categoria e che quella sera avrebbe potuto salvare la vita alla sua ragazza se non l’avesse lasciata sola.
Justin è, come il personaggio di una tragedia greca, portatore di una colpa di cui è però incolpevole, e di cui non sapeva nulla. La scoperta della sua responsabilità nell’accaduto è un impatto che lo pone in una condizione intricata. Perseguitato da un’angoscia che lo accompagnerà durante tutto il processo, cercherà di salvare se stesso, la sua famiglia (è in procinto di diventare padre e la sua compagna ha bisogno della sua presenza) ma vuole anche salvare un innocente. Tenta così di non chiudere il giudizio di colpevolezza su cui preme la comunità e cerca di far ragionare gli altri giurati della commissione sulla possibilità dell’innocenza di Sythe.
Un assalto di inquietudini che il film di Eastwood conduce con una regia meticolosa e inesorabile, tanto più impressionante trattandosi dell’esito di un cineasta che conclude le riprese a 93 anni compiuti, in cui il dilemma morale di Justin si disegna in un racconto dai tempi essenziali. Nell’alternarsi delle voci dell’accusa e della difesa, emerge un altro punto di vista attraverso i flashback del protagonista, una verità che soltanto il personaggio e lo spettatore conoscono. Una chiarezza di sguardo di grande intensità che Eastwood ci consegna attraverso un film talmente accurato e coinvolgente da rammentare i classici del cinema giudiziario.
Ma Giurato n. 2 è anche in grado di offrire uno spaccato della comunità e di portare, oltre la tesi esplicita che non sempre la giustizia è verità, il tema più raffinato che giustizia e verità hanno bisogno di incontrarsi sul terreno della comprensione ragionata delle circostanze.
Eastwood ci ricorda quindi che le istituzioni sono insufficienti e arrivano solo dove arrivano mentre gli innumerevoli casi e le condizioni particolari che coinvolgono le vite delle persone portano all’evidenza che gli individui sono costretti a seguire strade non precisamente allineate per compiere l’azione giusta.
Una posizione che Eastwood non scolpisce su tavole di granito ma che porge in un disegno aperto, dialettico, che ci riporta a molte scelte anche dolorose dei suoi personaggi, per i quali il fare è un aspetto irrinunciabile e intrecciato con una colpa che assume una connotazione dal sapore antico. Una colpa che il personaggio si porta dentro e che gli amari protagonisti del cinema del regista americano conoscono, da quella lancinante che accompagna la scelta dell’allenatore di Million dollar baby, spinto a sottrarre al calvario dell’assistenza vegetativa la giovane donna che ama come una figlia, a quella che vede il reduce Walt Kowalski di Gran Torino affidare all’estremo gesto sacrificale la possibilità del suo riscatto a favore dei giovani concittadini asiatici.
Clint Eastwood dice la sua parola più potente nel cinema che si interroga sulla giustizia instillandovi la sua visione intensa, che si sorregge sulla consapevolezza di dover confrontarsi con chi è abituato a seguire regole canoniche dalle quali il cineasta dimostra di non lasciarsi intimidire (la giurata numero 13 ricorda due regole immancabili del genere “true crime”: “La prima è che il sospettato principale è sempre il marito; la seconda regola è che spesso il sospettato principale non è il colpevole”).
E la palpitante immersione nella percezione di Justin, un protagonista che non vuole essere scoperto e che cerca di salvare un uomo innocente (almeno del delitto di cui è direttamente accusato) senza però finire condannato lui stesso, trasmette attimi di pura tensione, come nei momenti in cui altri giurati gli porgono delle domande, o a seguito delle indagini parallele di Harold (J. K. Simmons), un poliziotto in pensione convinto che ci possa essere un altro colpevole in libertà al posto del principale indiziato, il quale si procura l’elenco delle automobili simili a quelle di Sythe provocando l’angoscia di Justin la cui vettura figura nell’inventario. Con un’abile mossa, Justin riesce a far cacciare Harold dalla giuria, ma il poliziotto, sanzionato dal giudice Faith, ammette di aver fatto appello al suo antico giuramento, indagando per conto suo e contravvenendo quindi alle regole giudiziarie. Un monito, quello del poliziotto che segue la sua strada, con cui i conoscitori del cinema di Eastwood ritrovano il versante di una giustizia da sempre dibattuta dai suoi personaggi, che gravitano attorno al sistema trovandosi spesso a vivere l’esclusione o addirittura punizioni per il loro operato radicale. D’altronde, la questione della giustizia è posta in apertura dal film, quando il giudice, durante il processo, dichiara: “Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia”. Un tema che rimbalza nel “giardino del bene e del male” del cinema di Eastwood, ed è l’ossessione del giudice Faith Killebrew (Toni Collette), pubblica accusa al processo solita mostrare il lato intransigente della giustizia, prossima a candidarsi a procuratore distrettuale, che potrebbe trarre vantaggio dalla condanna dell’accusato. Faith ha bisogno di una condanna esemplare per le sue mire elettorali e con lei si muove un’opinione pubblica sensibile alle violenze domestiche. Nonostante le attese e i tentennamenti della giuria, quella condanna infine arriverà in Giurato n. 2, e al termine del processo, quando i fatti si ripresenteranno alla mente di Faith sotto una nuova luce, la donna comprenderà ciò che sino a quel momento non aveva inteso. Convintasi, per scrupolo di verità, a verificare l’elenco degli intestatari di auto recuperato dal giurato poliziotto cacciato da lei medesima, non era arrivata a identificare Justin, ma a un certo punto avrà un’illuminazione e si presenterà al campanello di casa del protagonista in un finale in cui il campo e il controcampo seguiti dallo schermo nero sigilleranno in un indissolubile legame il rapporto tra la verità e la giustizia. Un finale fulminante, sulla porta di casa di Justin, dove il buon padre di famiglia dovrà vedersela con l’imperativo di una giustizia che chiede di essere riconosciuta.
La tensione e il sapore di classicità sono aspetti di Giurato n. 2 che hanno ridestato in alcuni il ricordo di un film come La parola ai giurati (12 Angry Men, 1957) di Sidney Lumet; aspetti che in Eastwood si coniugano con l’esplorazione del comportamento umano attraverso un’esperienza dove i personaggi si specchiano con la propria coscienza lasciando esplodere preconcetti, presunte certezze, e dove all’individuo è restituita la sua centralità nevralgica in un contesto in cui, purtroppo, trovare un colpevole è una necessità sociale prima ancora che un atto di vera giustizia.
Titolo originale Juror #2
Lingua originale inglese
Paese di produzione Stati Uniti d’America
Anno 2024
Durata 114 min
Genere drammatico, thriller
Regia Clint Eastwood
Sceneggiatura Jonathan Abrams
Produttore Clint Eastwood, Tim Moore, Jessica Meier, Adam Goodman e Matt Skiena
Produttore esecutivo Jeremy Bell, David M. Bernstein e Ellen Goldsmith-Vein
Casa di produzione Dichotomy Films, Gotham Group, Malpaso Productions
Distribuzione in italiano Warner Bros.
Fotografia Yves Bélanger
Montaggio David S. Cox e Joel Cox
Musiche Mark Mancina
Scenografia Ronald R. Reiss, Gregory G. Sandoval, Christopher Carlson e Kristie Suffield
Interpreti e personaggi
Nicholas Hoult: Justin Kemp
Toni Collette: Faith Killebrew
J. K. Simmons: Harold
Chris Messina: Eric Resnick
Zoey Deutch: Ally Kemp
Cedric Yarbrough: Marcus
Kiefer Sutherland: Larry Lasker
Gabriel Basso: James Sythe
Francesca Eastwood: Kendall Carter
Leslie Bibb: Denice Aldworth
Amy Aquino: giudice Thelma Hollub
Lascia un commento