Con Il cavaliere pallido (Pale Rider, 1985) Clint Eastwood è di nuovo in sella e dirige un suo personale ritorno del western. Giunto da lontano per fornire un aiuto insperato agli oppressi di una comunità di cercatori d’oro vessata da un ricco prepotente e dai suoi violenti accoliti, il cavaliere è un predicatore su cui si concentrano gli occhi della comunità; sguardi che rivelano la rabbia e la paura dello sceriffo e del boss, ma anche l’ammirazione di Hull e il desiderio da parte delle donne, Sara e la figlia Megan di quindici anni. Attenzioni che ne sanciscono la dimensione di fantasma di una narrazione che rinnova lo smalto del cinema western che Clint Eastwood ha interpretato e che adesso si propone di riportare in essere aggiornando l’archetipo della frontiera attraverso il suo stile e la sua visione personali.
Il cavaliere pallido scopre a poco a poco le sue carte senza dare spiegazioni ma concentrandosi sull’apparizione di questo cavaliere pallido appunto come un fantasma, o forse uno spettro, che, come il Western dopo il collasso produttivo de I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) di Michael Cimino, riparte disvelandosi come il personale remake de Il cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953) di George Stevens. Riparte da quella seconda metà dell’Ottocento in cui l’arrivo del misterioso predicatore coincide con il desiderio racchiuso nella preghiera della giovanissima Megan, il salmo 23 con cui, dopo la morte del suo cagnolino a seguito della violenta apparizione dei banditi, si invocano una guida e una giustizia divina. La quali sarcasticamente arrivano a soccorrere i vessati tra le montagne dell’Idaho dove i cercatori d’oro consumano un inferno quotidiano nella lotta per la sopravvivenza che è anche una lotta contro i potenti e le istituzioni corrotte.
Insieme angelo della vendetta e portatore di eros, il cavaliere pallido è un predicatore senza nome, memore del passato cinematografico non soltanto leoniano di Eastwood e motore di un nuovo avvio che contempla un ripetuto duello portatore di cicatrici. Le cicatrici che sono soprattutto quelle del western nel preciso momento storico in cui Hollywood non ne vuole più sapere del Western a cui Eastwood è invece progressivamente ritornato (o dal quale non si è mai effettivamente allontanato) divagando con le rivendicazioni del tendone itinerante di Bronco Billy e con quelle nostalgicamente rapprese nella musica country di Honkyntonk man. Bagliori di un continuo omaggio che adesso prende la forma di un rigoroso aggiornamento con le poche sparatorie e le apparizioni-scomparse di eroi-fantasmi ne Il cavaliere pallido, dove la resistenza di una comunità si consola nell’apparizione di una figura a cavallo dal regno dei morti, che le preghiere bibliche collocano come “colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre” (Ezechiele). I riferimenti del nuovo film di Eastwood vanno alle radici del Western, risalgono da Leone a Mann sino a Ford e a Griffith, si portano all’essenza costitutiva del linguaggio del cinema così evidente nell’impiego del montaggio alternato in apertura del racconto. La rivisitazione del western attuata con Il cavaliere pallido è un’operazione linguistica e culturale, una scommessa in cui l’attore-cineasta offe un’ultima non ultima pagina della sua esperienza di cavaliere senza nome nel tentativo di rimettere in gioco un genere attraverso una prospettiva di sguardo che dà risalto all’intensità delle attenzioni sui personaggi.
In questa comunità di cercatori d’oro il soccorso viene dal predicatore che potrà contribuire a liberarli dalle minacce e dai sabotaggi di chi pretende di cacciarli dalla zona. Il volto del protagonista appare sovente tra le ombre, e come regista Eastwood crea sequenze in cui la presenza del personaggio prelude alla sua repentina volatilizzazione, come quando sembra essere al tavolo del ristorante e poi scompare. In questa luce egli realizza il primo film della sua consacrazione come regista, dando visibilmente espressione all’intento di suggerire attivamente nello spettatore un’immaginazione che permetta di ampliare le suggestioni e i confini di una narrazione che incontra in una forma più matura i sogni e i desideri dei personaggi. Si respira nell’essenzialità de Il cavaliere pallido la premessa fantasmatica di quella visione anti-retorica che si farà compiuto sguardo socio-politico ne Gli spietati e che conferma l’adesione del cineasta a una frontiera stilistica più personale, dove l’incedere del personaggio, il suo arrivo accompagnato dai versi dell’Apocalisse nell’entrata della fattoria di Hull con il cavallo bianco, l’incontro tenero e platonico nel bosco con la giovanissima Megan, quello più intensamente fisico con l’adulta Sarah, raccontano la maggior misura registica, l’evoluzione di un linguaggio che rimarrà ancorato alla percezione del personaggio, al suo carattere e alle sue ombre. Un personaggio che, ne Il cavaliere pallido, lascia la sensazione di avere a che fare con uno spettro, senza nemmeno il bisogno di sottolinearlo tingendo una città di rosso come ne Lo straniero senza nome ma eloquente nelle espressioni profetiche di cui si fa portatore e disarmante nelle domande che la sua presenza solleva (“Ma chi sei tu veramente?”).
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