Con Mystic River (Id., 2003) Clint Eastwood realizza un film tagliente come nelle sue corde, che in molti sono disposti a riconoscere tra gli apici della sua carriera. Mystic River viene appena dopo un trittico che la critica accoglie positivamente composto da Fino a prova contraria, Space Cowboys e Debito di sangue. In essi Eastwood è stato sempre protagonista e regista mostrando un’attenzione al personaggio che lo ha condotto a ritrovarne i sogni e la statura morale affiancandoli ad una riflessione costante sui limiti incombenti, sulle scelte e gli errori ma anche sulle scommesse necessarie per riscattarsi, con l’esibizione dei lati disarmanti di caratteri che il tempo ha messo alla prova.
Il pubblico apprezza e la critica riconosce la capacità di tenere banco efficacemente in una tavolozza di rimandi alla propria memoria di attore e cineasta. Ma è tuttavia con Mystic River che Eastwood compie un nuovo passo avanti in grado di convincere sull’evoluzione della sua prospettiva d’autore. Alla base c’è l’interesse per il romanzo di Dennis Lehane, un noir la cui profondità tragica viene consegnata alle immagini grazie alla sceneggiatura di Brian Helgeland, precisa e attenta come la regia di Eastwood che in Mystic River ci porta nel 1975, a Charlestown, dove le strade in cui trascorrono le giornate i giovanissimi Jimmy Markum, Sean Devine e Dave Boyle sono attraversate da pericolose insidie, come i due pedofili i quali, spacciandosi per poliziotti, rapiscono e violentano per quattro giorni Dave, fino a quando non riuscirà a scappare.
Il film di Eastwood racconta la perdita dell’innocenza infantile che trasforma Dave, a 25 anni di distanza, in un uomo perseguitato da quel trauma, oggi incapace di vivere una vita normale. Attorno a Dave (Tim Robbins) si muovono Jimmy (Sean Penn) e Sean (Kevin Bacon), il primo divenuto un piccolo boss che fatica a recidere il cordone con l’ambiente e la mentalità criminale, il secondo diventato un detective della Polizia di Stato. A distanza di tanti anni, Dave non riesce ancora a raccontare di quel tragico giorno del 1975 che gli impedì di vivere una vita normale, e quel magma nero filtra la percezione che si ha di Charletown e dei suoi abitanti, ciascuno segnato dalla paura, dal sospetto, dalla difficoltà di parlare e raccontarsi.
La struttura del racconto ci consegna cadenze tragiche di austera solennità, dove la fotografia dalle tinte bluastre di Tom Stern scandaglia una Charlestown umida in cui gronda il peso della vendetta, in un’America di origini irlandesi in cui l’amicizia virile si contorce sotto il peso di una memoria attraversata dal dolore e dalla morte.
Katie (Emmy Rossum), la figlia che Jimmy ha avuto dal primo matrimonio, una mattina viene trovata uccisa nel parco. Colpito da straziante dolore, Jimmy finirà per incolpare dell’omicidio il vecchio amico Dave e sulla sua convinzione contribuisce la moglie di questi, insospettita dalle alcune stranezze e dalle ferite che l’uomo riporta misteriosamente a una mano. Il clima di sospetto, la mancanza di vero dialogo, i traumi non elaborati, sono aspetti che disegnano l’atmosfera dolorosa di una vicenda che le indagini di Sean riconducono a quel giorno di venticinque anni prima, a partire dal quale a nessuno degli amici fu più possibile vivere rapporti umani in modo sereno. Un trauma che distrusse le loro vite, spingendole tra sensi di colpa e paure.
Nel suo scandaglio doloroso della società maschilista, Eastwood trova in Jimmy, intensamente interpretato da un lacerante Sean Penn, uno dei tre pilasti di un’amicizia infranta, il quale si erge a sorvegliante violento quanto impotente di un recinto familiare in cui le donne sono prigioniere e vittime. Il sospetto che il caro amico Dave possa essere l’omicida di sua figlia non fa che accentuare disperatamente l’incomprensione che viene a segnare queste storie di innocenza perduta, dove viene meno il senso dell’illusione caro al cinema di Sergio Leone e prende corpo la dimensione tragica di chi ha conosciuto l’abuso. Quello subito in tenera età da Dave che adesso è ottenebrato del doloroso dramma adulto di un padre a cui viene uccisa la figlia. E l’impotenza che risucchiò Dave nel gorgo dell’abuso, venticinque anni dopo riverbera nello sgomitante dolore di un padre che trova nell’amico Dave la vittima sacrificale. Perché invece Dave è innocente, e la sera dell’omicidio di Katie si è sporcato le mani anch’egli con la violenza ma uccidendo un uomo che stava approfittando di un ragazzino.
Allorquando il filosofo Eraclito ricordava che “non si entra mai due volte nello stesso fiume”, intendendo dire che se ti guardi intorno tutto cambia continuamente, Mystic River guarda a un cerchio che si chiude segnando le torbide acque di morte dell’incomprensione che si tramanda tra le generazioni. Un clima di tragedia che racconta l’incapacità di comunicare, con Dave trasformato in un morto vivente per quell’antico trauma, Jimmy elevato illusoriamente a maschio protettore con il consenso della seconda moglie Annabeth (Laura Linney) e Sean il quale, pur sentendosi impotente nel ruolo di tutore della legge che egli impersona, minaccia Jimmy per il suo gesto che consuma un dramma dentro un dramma. Quello di aver infine giustiziato un innocente è un ulteriore insostenibile dolore che si porta dentro Jimmy il quale confessa la sua tragedia di uomo egoista e consapevole di aver reagito all’orrore decretando un orrore che è un vero disastro, l’uccisione di un vero amico che fu a suo tempo vittima incompresa e inascoltata. Condizione inascoltata e incompresa anche in famiglia, un’istituzione che se ne esce tragicamente sconfitta in Mystic River, almeno nell’immagine perfettamente mortifera che ne ha Annabeh, addirittura rasserenata che la figliastra Kate si sia tolta di mezzo permettendogli adesso di avere il maschio protettore Jimmy finalmente tutto per sé.
Non è un caso se con Mystic River la carriera di Clint Eastwood abbia ripreso a folgorare con una serie di film in cui la denuncia di come sia in crisi la realizzazione dei nostri sogni passi attraverso il tema del bisogno di una solidarietà che avviene con l’incontro, con la valorizzazione di storie uniche e individualità da svelare, aspetti che denunciano la visione di un autore libertario per il quale il fiume di Mystic River è un ricettacolo di riflessioni amare dove la giustizia persevera nella sua fallacia. Nessuno esce vincitore, ci sono solo sconfitti in questo ritratto della società in cui Sean si ritrova apertamente minacciato da Jimmy ma la giustizia è qualcosa che rimane insabbiata in una memoria fatta di famiglie disastrate, violenze, pedofilia, abusi incompresi e dispercezione della realtà.
In questo film che farà vincere a Sean Penn e a Tim Robbins i premi Oscar si fa strada una visione più profonda, sfaccettata e complessa, tanto nella caratterizzazione dei personaggi tanto nella visione di una società che in quanto violenta e angosciosa richiede il bisogno di un dialogo, di uno sguardo cinematografico profondo e in grado di far parlare le parti della coscienza e dello spettatore. Un cinema più maturo, che racchiude al meglio le precedenti esperienze del suo autore e realizza l’elaborazione più personale di quel lavoro espresso con i migliori cineasti che adesso Eastwood sa coniugare in una visione sconsolata dove trova spazio una consapevolezza che è anche una dichiarata assunzione di responsabilità verso gli spettatori. Una maturazione che porta il cineasta a perseverare nel disegno dei rapporti umani a confronto con la Storia, in una società messa intensamente sotto la luce delle attenzioni del cineasta singolarmente così distanti dalle consuetudini dell’epica americana.
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