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I cento anni del dottor Caligari

Mario Galeotti Articoli Mar 29th, 2020 0 Comment

E’ trascorso un secolo da quando, il 26 febbraio del 1920 a Berlino, ci fu la prima proiezione pubblica del film diretto da Robert Wiene Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), sintesi perfetta dell’espressionismo tedesco, pellicola – manifesto di quel capitolo della storia del cinema in cui, come ha scritto Paolo Bertetto, “l’insicurezza, l’ossessività e la paura percorrono i personaggi e le situazioni” e li caratterizzano “nel senso di una chiusura senza soluzioni”.

Derivato dall’omonimo movimento artistico già sorto in campo figurativo e teatrale e sviluppatosi soprattutto in Germania a partire dal gruppo di artisti d’avanguardia chiamato Die Brucke (“il ponte”) nato a Dresda nel 1905, il cinema espressionista tedesco ha tradotto sullo schermo, con un profondo e pessimistico senso d’inquietudine e di angoscia, l’assunto fondamentale di questa corrente: rappresentare l’esteriorità con l’occhio dell’anima, compiere una ribellione dello spirito sulla materia e dell’arte sulla realtà fenomenica, affermare la soggettività e l’inconscio interiorizzando il tangibile.

Preceduto da Lo studente di Praga (Der Student von Prag, 1913, di Stellan Rye) e Il Golem (Der Golem, 1914, di Paul Wegener), e poi seguito da due opere significative come Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922, di Friederich Willem Murnau) e Il dottor Mabuse (Dr. Mabuse der Spieler, 1922, di Fritz Lang), il film di Wiene è un’opera complessa, ambigua, sfuggente, singolare, aperta a mille considerazioni. A differenza di quanto si è voluto credere per lungo tempo, Il gabinetto del dottor Caligari non deve il suo valore solo ed esclusivamente al lavoro degli sceneggiatori e alla componente plastica della messinscena (scenografie, luci, ombre, il trucco esasperato degli attori), ma anche ad altri fattori: la regia consapevole, l’uso accurato dei piani e dell’iris, un montaggio funzionale che supplisce sapientemente alla fissità delle inquadrature (i pochi, piccoli movimenti di macchina si contano su una mano, ma non dimentichiamo che siamo nel 1920), la scelta di una cornice – quella dell’ospedale psichiatrico, dove prende vita il racconto in forma di flashback – che anziché svelare il mistero e connotare con precisione la natura della storia raccontata da Francis (possibile fantasticheria di un pazzo) rende ancora più labile la linea che separa la realtà dall’immaginazione, confondendo ulteriormente le idee. Ancora oggi, riguardando il film, veniamo immersi in una angustiante dimensione onirica che neanche l’epilogo riesce a ridimensionare: alla fine lo spettatore continua a chiedersi se si tratti del frutto di una mente malata, Francis (Friedrich Fehér), o se invece il perfido imbonitore da fiera Caligari (Werner Krauss) che si è servito del sonnambulo Cesare (Conrad Veidt) per compiere atroci crimini (“azioni da cui rifuggirebbe nello stato di veglia”, recita la didascalia) esista davvero e si celi dietro l’apparente aria bonaria del direttore del manicomio.

Prodotto da Rudolf Meinert per la Decla, sceneggiatura firmata da Carl Mayer e Hans Janowitz, scenografie di Hermann Warm, Walter Reimann e Walter Rohrig, Il gabinetto del dottor Caligari è un film visionario, allucinante, dominato dai “regni del fantastico, della spiritualità e dell’espressione artistica” (Robert Wiene). Memorabili i fondali dipinti che disegnano l’irreale geografia urbana della cittadina di Holstenwall e che soppiantano i consueti elementi scenografici di cartapesta dei set cinematografici convenzionali. “Le immagini dovevano essere visionarie”, ricordava Hermann Warm, “restituendo un’atmosfera da incubo. Nessun elemento architettonico reale doveva essere riconoscibile, mentre una pittura deformante, adatta al soggetto, doveva dominare lo schermo”. Le prospettive distorte, gli spazi irregolari, le linee a zig-zag, l’obliquità ma anche la verticalità di tutto ciò che compone la scena (pensiamo all’altissimo sgabello su cui è seduto il segretario comunale responsabile delle licenza per la fiera, a simbolizzare il potere schiacciante della burocrazia), i contrasti di luci e ombre, le movenze degli attori: tutto concorre a creare una dimensione ‘altra’ e deformante, specchio dell’animo umano, sofferta visualizzazione dei moti più reconditi dell’io.

“Coi suoi caminetti obliqui sui tetti alla rinfusa, le sue finestre a forma di freccia e di aquilone e i suoi arabeschi frondosi che erano più minacce che alberi, Holstenwall ricorda quegli scorci di città ignote che il pittore Lyonel Feininger evoca nelle sue composizioni puntute e cristalline”, aveva scritto Sigfried Kracauer nel suo libro Il cinema tedesco dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, pubblicato per la prima volta nel 1947: un libro che rappresenta un’interessante analisi in chiave psicosociologica del cinema tedesco prima dell’ascesa al potere di Hitler, attribuendo anche al film di Wiene “la capacità di rendere trasparenti i contenuti inconsci dei cittadini di Weimar, oscillanti tra un’euforica liberazione degli istinti e la preconizzazione di un dominio tirannico dell’autorità” (Lorenzo Donghi).

Il film è facilmente reperibile in DVD nella versione restaurata nel 1995 dalla Cinémathèque Royale du Belgique, dal Munchner Stadtmuseum Filmmuseum e dalla Cineteca di Bologna.

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Mario Galeotti

(Sestri Levante, 1974) Dottore di ricerca, saggista e pubblicista, collabora con le testate InsideThe Show.it e Carte di Cinema. E' autore di diversi libri: ricordiamo "Dino l'amico italiano. Vita e carriera di Dean Martin" (Falsopiano, 2017), "Immagini e presenze americane nel cinema italiano" (Europa Edizioni, 2018), "Peter Cushing e i mostri dell'inferno" (Falsopiano, 2020), "Il mio nome è Moore, Roger Moore" (Weird Book, 2023).

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