Con il solito linguaggio puntuale e mai divagante, Roberto Lasagna è riuscito ancora una volta a dare un saggio della sua sconfinata cultura cinematografica e di quell’amore per il cinema inteso come irrinunciabile occasione di arricchimento, personale e collettivo. Questa volta lo ha fatto addentrandosi, con il rigore e la competenza che lo distinguono, nella poetica del regista Nanni Moretti.
Con il libro Nanni Moretti. Il cinema come cura, pubblicato da Mimesis, Lasagna ripercorre attentamente il cammino artistico (lungo ormai quasi cinquant’anni) di un autore mai imparziale, a volte controverso, osservatore critico del nostro tempo, che nei suoi film ha sempre esortato lo spettatore a farsi egli stesso soggetto attivo in questo processo di analisi. Un autore che, come scrive Lasagna, “ci invita a mettere in discussione i nostri schemi mentali anche quando sembra volerci far soprattutto ridere”.
Attivista animato da passione civile, frequentatore del Cineclub Roma Sud, ateo e comunista, dopo i cortometraggi La sconfitta (1973) e Pâté de bourgeois (1973) in cui dava già prova della sua vocazione irridente, e dopo il mediometraggio Come parli frate ? (1974) liberamente ispirato a I promessi sposi, Nanni Moretti esordì nel lungometraggio nel 1976 con Io sono un autarchico, realizzato in Super8 con pochissimi soldi e con l’aiuto di amici e parenti, che tenne a battesimo il personaggio del “moralista fustigatore ambivalente” e “bastian contrario” Michele Apicella (Apicella era il cognome di sua madre, Agata), interpretato dallo stesso Moretti e riproposto nei successivi film fino alla fine degli anni Ottanta: Ecce bombo (1978), Sogni d’oro (1981), Bianca (1984), Palombella rossa (1989), ai quali si inframmezzò il personaggio di don Giulio (sempre Moretti, regista e attore) in La messa è finita (1985).
Io sono un autarchico, presentato allo storico Filmstudio della capitale e poi ristampato in 16mm per partecipare a importanti festival europei, affermava la necessità “di un cinema senza pretese spettacolari e condizionamenti dettati dalle leggi del mercato”, un “cinema alternativo al mercato pur ponendosi come parte di esso in maniera al contempo autonoma e nevralgicamente altra”. L’atteggiamento del giovane regista trovava chiara, divertita espressione nella scena in cui si parla con tono polemico dell’opera di Lina Wertmüller. Messo al corrente del fatto che alla Wertmüller è stata offerta la cattedra di cinema all’Università di Berkeley, proprio lei, “quella di Pasqualino Settebellezze”, il protagonista Michele esterna il suo evidente nervosismo sputando bile verdastra. “Vedrai che il cinema italiano finalmente ha trovato il suo alfiere”, gli dice l’amico, “i nostri film incassano, piacciono, questo è un avvenimento importante che crea un precedente”. Era l’ironica provocazione di un esordiente che, con approccio intellettualistico, si ergeva a portavoce di un cinema di sperimentazione, di superamento del passato. La Wertmüller, insieme ad altri illustri esponenti della commedia italiana, rappresentava un mondo artistico che secondo Nanni Moretti andava superato. Lo spiegò nel 1977 nel corso di una puntata del programma televisivo Match, condotto da Alberto Arbasino, in un memorabile confronto con il veterano Mario Monicelli. Si trattò di uno scontro generazionale dove il ventiquattrenne Moretti, con fare un po’ insolente, si scagliava contro il cinema italiano dei grandi circuiti, ad alto budget, che soprattutto nel genere della commedia rispecchiava anche, secondo il suo giudizio, un sistema socio-politico da rivedere seriamente. Moretti denunciò il richiamo esercitato dal divismo e le politiche commerciali di produttori e distributori, interessati soltanto a conseguire il successo al botteghino. Monicelli lo definì “presuntuoso” e lui, senza mezzi termini, rispose: “Un giovane, quando inizia a fare cinema, deve essere presuntuoso per forza perché il cinema italiano è brutto!”.
Disagio giovanile, nevrosi, disillusione, imbarbarimento della cultura e dell’arte, crisi d’identità della Sinistra italiana, ideali perduti. Passando in rassegna le tematiche con le quali Nanni Moretti/Michele Apicella si è imposto all’attenzione del grande pubblico nell’arco di quasi quindici anni, Roberto Lasagna arriva poi a esaminare gli altri film della sua carriera: il pluripremiato Caro diario (1993), prima pellicola del regista ad essere distribuita nel mondo, opera di sapore pasoliniano con la quale Moretti “si porta al cospetto di una dimensione autobiografica senza filtri”; Aprile (1998), riflessione sul berlusconismo ma anche sulla paternità, dove recitando nel ruolo di se stesso Moretti rende ancora più labile il confine tra “vita vissuta e opera di finzione”; La stanza del figlio (2001), vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, film quasi di rottura, che a livello formale si presenta “con la compostezza del classico”; e ancora, Il caimano (2006), Habemus Papam (2011), Mia madre (2015), il documentario Santiago, Italia (2018), fino ad arrivare all’ultimo titolo della filmografia morettiana, Tre piani (2021), storia corale di incomunicabilità, tratta dal romanzo di Eshkol Nevo, che raduna il gota del cinema italiano contemporaneo: Margherita Buy, Adriano Giannini, Riccardo Scamarcio, Elena Lietti, Alba Rohrwacher, Stefano Dionisi, Tommaso Ragno, ai quali si affianca lo stesso Moretti nel ruolo del giudice Vittorio.
Non manca un doveroso sguardo al Nanni Moretti attore nei film prodotti dalla Sacher Film, la casa di produzione cinematografica fondata nel 1987 da Moretti insieme ad Angelo Barbagallo con l’intento di dare spazio ai giovani nuovi autori di un cinema d’arte: Domani accadrà (1988) e Il portaborse (1991) diretti da Daniele Luchetti, La seconda volta (1995) di Mimmo Calopresti, Te lo leggo negli occhi (2004) di Valia Santella.
Nel racconto, preciso e appassionante come sempre, di Roberto Lasagna l’universo filmico di Nanni Moretti si pone come cura (concetto evidente già nel titolo del libro), cura per la mente: un cinema auto-riflessivo che, parlando di insofferenze, “ridesta il nostro bisogno di reagire”. “Curarsi per ritrovarsi”, scrive Lasagna in apertura di volume, “dentro quelle visioni che provocano la messa in dubbio delle certezze, attitudine comune all’autore, con il quale il cinema diviene strumento di autoanalisi”.
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