Sull’onda della recente uscita del pirotecnico e immaginifico Elvis di Baz Luhrmann, è il momento di riscoprire un incredibile film del 1979: Elvis – il re del rock di John Carpenter.
Elvis Presley era morto nel 1977, due settimane dopo il suo ultimo concerto a Memphis, all’età di 42 anni e la stampa dell’epoca si era accanita sulla sua figura con teorie complottiste e sottolineando la dipendenza da alcool e droghe del musicista, assente dalle scene da 10 anni, ingrassato, diabetico e visibilmente fuori forma.
Il motivo per cui John Carpenter (Fuga da New York, La Cosa, Essi Vivono…) abbia accettato di dirigere un bipic per la tv sul grande musicista rock è molto semplice e ci viene detto dallo stesso regista: “io amo Elvis”.
Elvis – il re del rock è infatti un omaggio sentimentale che trasuda indulgenza e affetto da ogni fotogramma, pensato proprio per riabilitare la figura, bistrattata, del rocker immortale. Inoltre rappresenta un improbabile inizio del sodalizio felice che sarebbe durato a lungo tra il regista horror, appena reduce dal successo de La Notte delle Streghe e il giovane attore Kurt Russell, nel ruolo di Elvis.
Un aneddoto vuole che il primo ruolo cinematografico di Russell sia stato proprio in uno dei film di Elvis del 1963, nel quale faceva la breve apparizione di un ragazzino dispettoso.
Nel film di Carpenter Elvis appare come un bravo ragazzo del sud, legato in modo quasi morboso alla figura della madre, una meravigliosa Shelley Winters. La morte del fratello gemello lo rende un ragazzino sensibile e un po’ diverso, intento a dialogare con la sua figura immaginaria prima e in seguito, da adulto, con una (…carpentiana) sua ombra riflessa sul muro. A scanso di equivoci, la madre afferma chiaramente: “in te, Elvis, vivono l’energia e la forza di due persone”.
L’uomo Elvis ne emerge come un mammone timido e per bene dal temperamento sensibile, alla ricerca di un amore romantico, che si rivolge alla fine a Priscilla (Season Hubley), una ragazzina del liceo. L’artista è invece predominante sull’uomo e lo possiede interamente, rendendolo appagato sul palcoscenico molto più che in qualsiasi altro frangente della vita.
Con ogni probabilità il film risente della scomparsa recente di Elvis, tanto che il finale è ammantato di pudore e rispetto e si blocca sul fotogramma che lo ritrae di nuovo sul palco, coraggioso nonostante le minacce di morte ricevute da un mitomane, e felice di potersi nuovamente esibire. Di lì a poco sarebbe morto per un attacco cardiaco, ma non è questo che interessa al regista, quanto ristabilire e ripulire l’immagine del musicista da ogni pettegolezzo infamante.
Il risultato è un film godibile, piacevole e interessante, dall’approfondimento psicologico non molto tridimensionale, ma esaltato dalle performance fisiche e canore del protagonista e il cui fascino risiede proprio in quell’ombra a una sola dimensione che la luce riflette sul muro e alla quale Elvis si rivolge.
La scena nella quale Elvis bambino arranca verso casa, sferzato da un’incipiente tempesta e da foglie turbinanti, è tutto Carpenter: l’universo che si oppone con le sue misteriose e oscure forze al cammino dell’uomo onesto, il quale, nonostante tutto, va avanti.
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