Vi presentiamo le interviste ed un’altra clip del nuovo film di Giovanni Veronesi L’ultima Ruota del Carro, che sarà nei cinema a partire da questo giovedì.
La clip “La Pagella”
Il film di Veronesi ha aperto Fuori Concorso l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma che si sta svolgendo presso l’Auditorium Parco della Musica.
L’intervista a Giovanni Veronesi
Come è nata l’idea di questo film?
Conoscevo da diversi anni Ernesto Fioretti, un autista di produzione romano poco più che sessantenne di cui nel tempo sono diventato amico, ma non avrei mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato a raccontare in un film la sua vita più che movimentata. Tutto è nato quando un giorno, mentre uscivamo da un autogrill reduci da un pranzo non esaltante, Ernesto mi ha detto: «Abbiamo mangiato peggio di quando facevo il cuoco d’asilo…». E io: «In che senso? Raccontami… ».
E così, andando avanti e indietro nel tempo come in una sceneggiatura di Harold Pinter, ha iniziato a descrivermi la sua esistenza ricca di eventi grandi e piccoli, collettivi e privati, spesso ai limiti dell’incredibile, da lui vissuti come testimone privilegiato,facendo diversi mestieri, primo tra tutti l’autotrasportatore. Attraverso i suoi racconti ho visto passare davanti agli occhi quasi quaranta anni di storia italiana e ho pensato subito che, nascosta dietro quell’uomo così candido e discreto, ci fosse una vicenda umana sorprendente per le tante casualità e coincidenze che l’hanno caratterizzata: è stato tra le altre cose il trasportatore di fiducia delle opere di Mario Schifano! Una vita così meritava di essere subito portata al cinema!
Che cosa ha scelto di raccontare nella sceneggiatura scritta con Ugo Chiti, Filippo Bologna e il vero Ernesto Fioretti?
Quello che mi ha fatto scattare la molla, la voglia di fare di Ernesto il protagonista di una storia, è il fatto che lui sia rimasto uguale a se stesso. Tutto quello che si vede nel film è vero al 90%. Raccontando in chiave di commedia corale la sua vera vita, il nostro è stato un lavoro d’assemblaggio, di riassestamento cronologico di suoi ricordi ed aneddoti di vita reale. È un film dalla parte degli ultimi: quando si racconta l’esistenza di una persona bisogna essere rigorosi, non si può mancare di rispetto ai diretti interessati. Mi è capitato di raccontare episodi molto divertenti, ma anche eventi drammatici: la vita di Ernesto Fioretti è la sua e la rispetto. In L’Ultima Ruota del Carro l’ho mostrato in scena nei panni di un mite autista di camion, (ribattezzato Ernesto Marchetti e interpretato da un formidabile Elio Germano), che per quarant’anni ha girato tutta l’Italia: attraverso il suo sguardo privilegiato sulle avventure tragicomiche e sugli episodi incredibili di cui lui è stato protagonista e testimone, abbiamo avuto la rara opportunità di portare in scena anche la storia recente del nostro Paese, rendendoci conto però che l’unico modo per raccontare la nostra società degli ultimi decenni era lasciarla come cornice e sfondo della vita di un uomo comune, di una persona normale. Nato in una famiglia patriarcale romana, Ernesto cresce coltivando i desideri di ogni ragazzino degli anni 60: sposarsi, avere una vita felice e magari un mestiere già avviato come quello del padre – che fa il tappezziere. Ma gli imprevisti e gli amici (primo tra tutti il più che intraprendente Giacinto, interpretato da Ricky Memphis) lo costringeranno invece a vivere catapultato in una realtà che non gli appartiene. Subirà il proprio destino, ma rimarrà sempre e comunque un uomo onesto, un soldato semplice fedele ai propri principi e a sua moglie Angela (Alessandra Mastronardi). La loro storia sentimentale è un altro dei pilastri fondamentali di questa vicenda: peraltro – ci tengo molto a dirlo – è il primo film della mia vita dove nessuno si fa le corna, perché la vera protagonista è l’onestà. Ernesto riesce a dribblare tutte le occasioni che la vita gli offre per essere disonesto e per approfittare degli altri. Il tutto viene raccontato con molta leggerezza, senza mai avere l’ambizione di raccontare un pezzo di Storia, che fatalmente scorre alle spalle di questo personaggio piccolo e apparentemente insignificante. Quella di Ernesto è la storia di un soldato semplice che ha vinto la sua guerra personale rimanendo integro e coerente con i propri principi, passando attraverso quelli che sono stati forse gli anni più corrotti del nostro Paese. Anni difficili di devastazione etico-morale, corruzione, microcriminalità, evasione, malasanità che ci hanno contaminati tutti. Ernesto invece li ha attraversati indenne, e mi sembrava giusto rendergli omaggio perché rappresenta l’eccezione e l’antidoto, incarna quella normalità e quella lealtà venuta a mancare mentre tutti noi ci siamo impantanati e questo lo porta ad essere una mosca bianca e quindi un protagonista.
Come entrano in scena gli altri personaggi?
Le varie persone che affiancano Ernesto in scena sono tutte ispirate a modelli reali: Giacinto (Ricky Memphis), il suo amico più caro, è una presenza fondamentale al fianco di Ernesto: lo accompagna nell’arco di tutta la vita e rappresenta l’italiano medio voltagabbana, che sfrutta tutte le occasioni che gli capitano a tiro e cambia bandiera politica a seconda del vento. Tra i due nasceranno contrasti anche molto duri, ma alla fine essendo la loro amicizia radicata fin dall’infanzia, i due non si perderanno mai di vista.
Sua moglie Angela, interpretata da Alessandra Mastronardi, lo segue come una specie di devota e silenziosa compagna di strada, e si rivelerà significativa e decisiva per le sue scelte. Il Maestro, un pittore di fama internazionale interpretato da Alessandro Haber è un personaggio tipicamente rappresentativo degli anni’80-90, con quella sorta di maledizione addosso che portavano con loro gli artisti della Scuola romana. Con lui nasce un rapporto particolarmente amichevole, all’insegna della fiducia reciproca: Ernesto diventa il suo trasportatore ufficiale, ed entra nelle case più belle del Paese incontrando una moltitudine di persone a cui non sarebbe mai approdato nella sua vita di quartiere. Sergio Rubini dà vita invece ad un tipico politico socialista senza scrupoli dell’epoca: opportunista, cinico e spietato con se stesso e con gli altri, e soprattutto poco imparentabile a quel tipo di socialismo ideale alla Pertini di cui tutti andavamo fieri in passato. Virginia Raffaele incarna poi una sorta di prodromo di quelle donne senza scrupoli a cui, negli anni successivi, non erano più sufficienti i calciatori per arrivare e sentirsi realizzate. La novità è che si tratta di una donna moderna, arrivista e spietata, che si è evoluta e smania non più per stare accanto agli uomini di potere, ma per esercitarlo direttamente: è come se avessi dipinto una delle prime figure femminili abilissime ad industriarsi per ottenere tutto e subito quello che volevano all’interno della politica. Ubaldo Pantani interpreta il toscano, l’amico balordo che tutti noi abbiamo avuto, il nostro specchio negativo, quello che avremmo potuto diventare se fossimo stati meno accorti. Ma alla fine, della nostra storia, inaspettatamente, sarà proprio il toscano che abbiamo visto solo e sempre ai margini della vita ad offrire generosamente del lavoro ad Ernesto e a sua moglie, ormai anziani, come comparse sul set di una fiction tv. Questo rende, spero, il nostro film una commedia vicina a quelle – inarrivabili – di Risi, Monicelli e Scola, a cui mi sono sempre ispirato, dove era all’ordine del giorno l’umiliazione delle persone umili da parte del’arroganza del potere. Mi piace l’idea che il riscatto di certi personaggi sia disperato, che non porti ad una vera svolta nella vita: nel film, ad esempio, Ernesto viene coinvolto direttamente in un episodio di malasanità, rimanendo vittima di una diagnosi sbagliata. L’unico riscatto che riesce a prendersi è quello di mandare al diavolo la dottoressa che lo aveva profondamente ferito.
Come ha scelto i suoi attori, che cosa cercava e cosa ha trovato in ognuno di loro?
Penso che Elio Germano sia l’interprete più dotato e completo in circolazione oggi in Italia. Ha 32 anni, un’età giusta per interpretare le varie fasi della vita di una persona. È molto duttile e intelligente, costruisce il personaggio con te gradatamente e non lo abbandona mai, è uno di quegli attori che ogni giorno ricorda a memoria tutto il film per intero come fa il regista. Con lui è come se ci fossero sempre sul set due persone che quotidianamente pensano al film nello stesso modo. Per una storia che abbraccia quaranta anni di vita italiana c’era bisogno di un attore del calibro di Elio che non molla mai il suo ruolo. Mi sono accorto che il personaggio avrebbe funzionato perché quando glie l’ho raccontato la prima volta gli si sono illuminati gli occhi; in quel momento ho capito che mi avrebbe detto sì. Elio ha un radar speciale per comprendere quello che vale davvero, separandolo poi da quello che vale meno, ed è dotato di una sorta di display per cui tu riesci a capire sempre quello che lui pensa davvero, è sempre molto vero. Era già bravissimo dieci anni fa, quando era stato uno degli interpreti principali del mio film Che ne sara` di noi e non era ancora il numero uno tra gli attori italiani. Ora è diventato capace e versatile in ogni registro, puoi fargli fare un po’ di tutto, e lui riesce sempre a restituire la verità in modo straordinario, come solo i grandi attori sanno fare.
Non avevo mai lavorato con Ricky Memphis. Quasi tutti i miei colleghi gli avevano sempre offerto ruoli da bamboccione (quando non era impegnato a fare il poliziotto), mentre secondo me lui può contare su una faccia da vero figlio di mignotta. Mi sembrava quindi perfetto per dar vita al miglior amico di Ernesto, Giacinto, un personaggio opportunista, scaltro, sveglio, in soccorso del vincitore di turno, pronto a cambiare bandiera senza porsi il problema di dove sia finita la precedente. Un attore in grado di recitare un monologo su Berlusconi e la sua epoca così come è avvenuto in scena, insomma. Secondo me Ricky è fantastico perché riesce a dire le cose che dice rasentando il paradosso, ha una faccia talmente impassibile e immutabile… Ha una comicità naturale straordinaria, e poi, non c’è altra parola per definire il suo modo di essere comico: sa far ridere davvero, ma non te lo fa vedere.
Alessandra Mastronardi è stata un po’ una mia scommessa: non la conoscevo, sapevo solo che era un’attrice diventata popolare grazie ad alcune fiction, ma la mia compagna Valeria Solarino la stimava molto e ha insistito perché le facessi un provino. Mi sono fidato, e Alessandra si è rivelata bravissima nelle scene che ha recitato provando davanti alla telecamera insieme ad Elio. Ci siamo stupiti entrambi dell’alta qualità della sua recitazione realistica, sono sempre stato convinto che la naturalezza sia una dote fondamentale. Per lei era forse il primo ruolo complesso e completo della sua vita, ci siamo lanciati in questa avventura e la nostra è stata una cavalcata felice: Alessandra è una ragazza straordinaria, mi metteva quel buonumore di cui si ha bisogno tutte le mattine quando si va a lavorare, ogni volta che la incontravo avevo la consapevolezza che stavo facendo un lavoro straordinario.
Come e perché ha scelto due sue vecchie conoscenze come Alessandro Haber e Sergio Rubini?
Ho aspettato 20 anni per scritturare di nuovo Haber, dopo Per Amore, Solo per Amore: per quel mio film lui vinse tutti i premi in circolazione, ma tutti dissero che fu bravo perché il suo personaggio era… muto! Gli avevo tagliato la lingua stroncando la sua proverbiale logorrea, ma questa volta si potrà apprezzare ugualmente la grandezza di un attore che quando è ben diretto e ha gli stimoli giusti può fare delle cose uniche. Penso ad esempio ad alcuni sguardi e a certe riflessioni che sfoggia nella scena del monologo in cucina: mentre lo recita mangiando il riso con le mani sembra di stare a casa sua! Il suo ruolo è quello un pittore di talento e di fama, un po’ schizzato, che si avvicina molto al suo modo di vivere e di pensare: anarcoide e sregolato, ma quasi senza averne una piena consapevolezza.
Sergio Rubini era l’interprete perfetto per dar vita al personaggio del politico socialista corrotto. Da anni chiedo a Sergio di interpretare nei miei film tutti i ruoli che in quelli da lui diretti secondo me non reciterebbe mai: il gay, il marito tradito, il cinico spietato… è un attore poliedrico, per me sarebbe pertinente in ogni film che giro. Per un regista inquadrare la sua faccia è una goduria perché è asimmetrica, ma ha una sua geometria precisa che va bene per gli obiettivi e la cinepresa: sembra fatta apposta per essere inquadrata. E poi siamo amici, lo trovo molto simpatico, è uno dei pochi colleghi che vedo spesso e volentieri nel mondo del cinema.
Avevo bisogno infine di una spinta iniziale che facesse capire le origini di Ernesto e dovevo scegliere un interprete che potesse incarnare bene quel tipo di padre-padrone che era il babbo del protagonista. Anche in questo caso tutto quello che avviene è vero, avevo bisogno di un attore che sapesse portarsi dietro quel tipo di romanità un po’simpatica ma anche molto cinica, e Massimo Wertmuller ha fatto un grandissimo provino, il suo ingaggio è stato pienamente meritocratico.
Si tratta di un affresco dell’Italia degli ultimi 40 anni che le permette di coltivare ambizione più alte…
In questa occasione mi sono sentito molto libero di raccontare quello che volevo grazie al bel rapporto di totale stima, fiducia, rispetto e amicizia reciproca che si è instaurato con il produttore Domenico Procacci, che ha sposato il progetto e mi ha lasciato andare avanti da solo così come io ho lasciato felicemente libero lui. Questo mi era accaduto anche in altre occasioni, ma non necessariamente la libertà di movimento coincideva con il risultato migliore di un certo film: forse oggi sono abbastanza grande per scegliere meglio i progetti e per soffermarmi sulle persone che racconto con maggiore consapevolezza, senza l’ansia di dover ottenere necessariamente un risultato comico dal personaggio in sé, ma andando a cercare ironia e comicità in tante situazioni della vita che sono poi quelle che fanno ridere davvero. Ho scelto di intraprendere una strada diversa in un momento in cui, per quanto riguarda la commedia, il mercato italiano si è fossilizzato su due/tre stili soltanto perché funzionano. Io però resto sempre ottimista sul pubblico e sulla sua capacità di scegliere…
L’intervista ad Elio Germano
Come si è trovato con Giovanni Veronesi a dieci anni di distanza da Che ne sara` di noi?
Ci siamo ritrovati invecchiati entrambi di dieci anni.. in realtà da allora siamo rimasti sempre in contatto e in ottimi rapporti; in un paio di occasioni abbiamo anche rischiato di realizzare altri progetti, due o tre idee che poi non sono state più sviluppate, ma la voglia di tornare a lavorare insieme non ci ha mai abbandonato. Con L’Ultima Ruota del Carro mi è stato subito chiaro che Giovanni avesse intenzione di mettersi in discussione e in gioco dando vita ad una storia che avrebbe consentito anche a me un coinvolgimento intenso. Puntava infatti ad una maggiore libertà espressiva e – assecondando una vena che gli è sempre appartenuta e che aveva coltivato prima di dedicarsi a film esplicitamente comici – ad approfondire un certo tipo di riflessione umana più amara, in linea con la grande commedia italiana del passato che era divertente, popolare ma anche complessa. L’Ultima Ruota del Carro è un racconto corale che parte tra la fine degli anni’60 e l’inizio dei ‘70 quando Ernesto, il mio personaggio, lavora come tappezziere a Roma insieme ad un severo padre/padrone (Massimo Wertmuller). Si innamora di Angela (Alessandra Mastronardi) – una donna che sarà sempre al suo fianco fino ai nostri giorni con dedizione e lealtà ammirevoli – e in un momento di euforia, legato alla vittoria italiana ai Mondiali di calcio del 1982, decide di mettersi in proprio e di fare il grande passo, riappropriandosi della sua vita e diventando padrone del proprio lavoro insieme al suo migliore amico, Giacinto (Ricky Memphis) che poi scopriremo essere un tipo più che truffaldino..
Il mestiere di autista/trasportatore offre ad Ernesto la possibilità di uno sguardo trasversale, privilegiato e intimo sul mondo. Gli consente di attraversare quaranta anni di storia italiana: quella della TV in bianco e nero degli anni ’60, quella dalle tinte cupe dei ’70 che culminerà nell’omicidio di Aldo Moro, quella del rampantismo degli anni ’80 che sfocerà in Tangentopoli, fino all’Italia degli anni ’90 (e dei successivi) di Berlusconi. Tra un trasloco e l’altro del mio personaggio attraverso le loro case, vediamo i nostri connazionali e il nostro Paese che cambiano tra gioie e dolori, assistiamo a una serie di vicende al limite dell’incredibile, ma tutto quello che raccontiamo – per quanto possa sembrare inverosimile o paradossale – è il frutto romanzato di una serie di aneddoti basati su fatti realmente accaduti. Ascoltando Veronesi mentre mi raccontava questa storia fatta di una pasta così insolita, capivo che aveva bisogno di un interprete del tipo dei grandiosi Alberto Sordi e Nino Manfredi, forti di quella loro profonda umanità e di quella capacità unica di incarnare personaggi che fossero in grado di coinvolgere da vicino gli spettatori e di creare con loro un rapporto intimo e diretto. Ovviamente si tratta di mostri sacri con cui è impossibile osare un paragone, ma – con la dovuta umiltà – in questa occasione ho cercato un’ispirazione proprio in quel senso. Il riferimento esplicito a certe commedie di costume che hanno segnato un’era ha rappresentato per me l’opportunità di un coinvolgimento insolitamente intenso, con una modalità interpretativa che non mi è mai appartenuta, fatta di un approccio e di tempi particolari.
Che cosa le è piaciuto del suo personaggio e perché?
L’Ernesto che interpreto è sincero, trasparente, puro. Un uomo che pensa in modo autonomo, che è capace di affrontare scelte controcorrente e fuori moda ed ha il coraggio di non perdere la testa, passando indenne attraverso tanti eventi e cambiamenti. È un uomo che ha scelto di non approfittare delle situazioni e delle scorciatoie a portata di mano per arricchirsi, preferendo appagarsi come persona in un’altra direzione non materiale: il rispetto delle persone, la condivisione, reale e senza secondi fini, sono il lusso più grande che si possa avere nella vita, e gli anni finiranno col dargli ragione, facendo risaltare quelle scelte che al momento sembravano ingenue e non furbe. Nel recente passato le persone si riconoscevano nel proprio mestiere, lo consideravano un modo per fare qualcosa di utile per la collettività, vi si identificavano cercando di dare il massimo e di essere sempre più efficienti e all’altezza. A differenza di quello che oggi il contesto attuale propone e promuove, il nostro film descrive l’orgoglio di questa emozione, e ci ha offerto l’occasione di raccontare qualcosa per preservare questo tipo di umanità che ci appartiene come dna italiano. L’Ernesto che interpreto è insolito per Italia di oggi, ma forse era meno insolito per quella degli scorsi decenni in cui si coltivava ancora il piacere dell’onestà e delle cose ben fatte, del mettersi a disposizione soltanto per la propria soddisfazione personale e per il privilegio di sentirsi appagati dal proprio lavoro, e del ritorno emotivo che ne conseguiva: le persone che hanno dedicato la vita a fare qualcosa per gli altri dormono una vita serena e hanno soddisfazioni più alte.
Come ha cercato di riproporre il percorso umano del suo Ernesto?
Mi piaceva il fatto che Ernesto fosse una persona che si realizza nell’essere disponibile: in fondo il mio mestiere è un po’ così, gli attori devono essere a disposizione del progetto di turno, rappresentano la carta e l’inchiostro di un regista. Se Che ne sara` di noi raccontava una vicenda più corale di cui ero uno dei tre protagonisti, questo nuovo film di Giovanni invece descrive la vera storia di un personaggio reale, ed abbiamo avuto il privilegio di lavorare a stretto contatto con il vero Ernesto Fioretti. La vicinanza fisica di Ernesto – che firma il film come co-sceneggiatore – è stata molto utile per poter avere a disposizione i diversi tasselli del mosaico: è stata un’opportunità unica avere al mio fianco la persona da interpretare, che mi raccontava come erano certi anni e qual era il modo di pensare di una determinata epoca. Il mio lavoro è stato perciò quello di universalizzare certe qualità e caratteristiche del vero Ernesto, cercando di esprimere tutto quello che di questa persona comune c’è o può esserci in ogni spettatore….
Come si è trovato invece con Alessandra Mastronardi e Ricky Memphis?
Con Alessandra è andato tutto benissimo, non la conoscevo come attrice ma abbiamo creato subito tra noi una bella intesa e una sana familiarità. Anche il suo personaggio è a sua volta ispirato molto da vicino ad una persona reale, la vera moglie di Ernesto: i due protagonisti vivono una storia d’amore molto forte, fatta di verità e sincerità, frutto di un rapporto paritario che si mantiene intatto nel tempo grazie ad un modo di pensare opposto rispetto a quelli in voga oggi, e che ci ha dato l’orgoglio di un modello diverso da rappresentare. Il bel gioco instaurato con Alessandra è stato quello di raccontare questo grande amore lungo 40 anni, e di portare in scena con intensità e credibilità i nostri due personaggi mentre invecchiano insieme: magari qualche volta li vediamo anche bisticciare tra loro, ma i due conservano un legame saldissimo perché dipendono fortemente l’uno dall’altro. Con Ricky Memphis, invece, ci sono state diverse occasioni di esplicita commedia: il suo personaggio, Giacinto è un opportunista che cerca sempre la via più facile e la scorciatoia più rapida per svoltare, e rappresenta un modello molto attuale. I due amici nel corso di quaranta anni vivranno diverse situazioni buffe ma anche romantiche e ancora momenti di forte tensione, ma poi si ritroveranno sempre comunque uno a fianco dell’altro: arriviamo a raccontarli fino alla nascita dei loro nipoti.
Considera questo film diverso rispetto alle commedie d’evasione oggi particolarmente in auge?
La commedia deve essere questa, a livello semantico faccio molta fatica a definire commedia certi film che si vedono al cinema o in tv perché continuano a proporre un discorso sul comico ormai svincolato dalla realtà: ne L’Ultima Ruota del Carro ho avuto la fortuna di poter lavorare a stretto contatto con tanti comici di valore come Maurizio Battista, Virginia Raffaele, Ubaldo Pantani o come lo stesso Sergio Rubini, un attore in grado di recitare bene qualsiasi ruolo in ogni contesto. Questo per me ha rappresentato una vera scuola, un approccio diverso sulle cose, un discorso molto interessante perché abbiamo tutti potuto improvvisare in maniera molto creativa. Si è trattato di un film molto complesso per la fatica emotiva, ma anche per i continui invecchiamenti a cui dovevamo sottoporci con il trucco. Fortunatamente il nostro lavoro è stato reso possibile da una troupe eccellente, tra cui cito per tutti Luigi Rocchetti, uno dei grandi truccatori su cui possiamo contare nel nostro Paese, da tempo molto conteso sui set internazionali. Un grande valore aggiunto, l’effetto speciale più prezioso, è arrivato infatti dal grande lavoro di alto artigianato dei nostri reparti che, con soluzioni geniali e all’avanguardia e con un budget spesso ridotto, continuano a nobilitare una tradizione fantastica di creatività italiana che purtroppo sta scomparendo. A questo proposito è stata importante la scommessa coraggiosa del produttore Domenico Procacci che, nonostante il momento di crisi, ha deciso di investire comunque su qualcosa che potesse dare un forte peso al nostro film: lui e Veronesi non si sono tirati indietro e hanno realizzato un’opera molto ambiziosa, che puntando sull’alto professionalità tecnico-artistica e su un grande cast è stato in grado di raccontare in maniera credibile varie vicende, molti personaggi e tanti periodi storici diversi.
L’intervista ad Alessandra Mastronardi
Come è stata coinvolta in questo film ?
Giovanni Veronesi non mi conosceva personalmente, sapeva solo che avevo recitato in alcune fiction. All’inizio era piuttosto scettico: forse pensava che fossi troppo giovane e che non fossi in grado di reggere il peso di un personaggio come Angela, che cresce in scena attraverso vari decenni. Nei diversi incontri e provini che ho sostenuto – una volta soltanto con Veronesi e in seguito anche con Elio Germano – ho lottato tanto per fargli capire che volevo fermamente la parte di Angela, e per fortuna ho trovato una sponsor entusiasta nella sua compagna Valeria Solarino, che era certa che io potessi essere adatta per quel ruolo. Sono sempre stata una fan dei film di Giovanni e del suo umorismo toscano, cinico e tagliente, e quando durante i nostri incontri preparatori al film cercava scherzosamente di abbattermi col suo sarcasmo, io gli tenevo testa e gli rispondevo sempre a tono: credo sia stata proprio questa mia determinazione a rassicurarlo e a convincerlo definitivamente.
Che cosa le è piaciuto di più della storia e del suo personaggio?
Leggendo la sceneggiatura sono rimasta affascinata innanzitutto dal protagonista, ed ho capito come e perché una donna potesse essere conquistata per sempre da una persona simile: mi ha commosso il fatto che le vicende di Ernesto e Angela fossero vere e che quelle due persone rappresentate in scena esistessero davvero, e ho subito sentito il mio compito ancora più importante e significativo. Diventava infatti determinante per me poter dare il massimo per rendere loro giustizia: sono una coppia unita in un modo speciale, sembrano una persona sola. Nel nostro film Angela rappresenta per Ernesto una sorta di filtro purificatore: quando lui torna a casa lei lo alleggerisce dei suoi problemi, lo rassicura, assorbe la negatività di cui è intriso e riporta in lui la calma. All’inizio era logico per me avere paura di non essere all’altezza del ruolo e del compagno di lavoro che avevo accanto, ma allo stesso modo mi sentivo anche molto intrigata dalla sfida enorme che mi aspettava. Tenevo moltissimo a rappresentare la storia di questa donna che ha sempre vissuto nell’ombra, ma che rappresenta la vera forza della coppia. Angela è un personaggio insolito perché apparentemente sembra vivere esclusivamente all’ombra del suo uomo, ma in realtà non è così. Essa rappresenta per Ernesto la sua metà nel senso letterale della parola, è come se fosse la sua coscienza, una presenza importante, discreta, forte, paziente, una persona semplice che si rivela una gran donna, saggia e decisiva per l’equilibrio della famiglia. I due si compenetrano e si integrano a vicenda, non subiscono mai passivamente tutto quello che accade intorno a loro e sono pronti a rialzarsi ogni volta, come i vecchi saggi di altri tempi. Interpretare un personaggio nell’arco di una vita intera è stata per me una delle esperienze più stimolanti: la fatica delle quattro ore di trucco al giorno diventava secondaria, il regalo più bello era poter contare sul fatto che Angela fosse seguita in tutte le diverse fasi della sua vita.
Ha mai visto la vera Angela? Quali sono le sue caratteristiche che l’hanno colpita di più?
L’ho incontrata prima delle riprese, ed il nostro incontro mi è stato molto utile per capirla meglio. Quando si legge una sceneggiatura si è portati ad immaginare esagerazioni o forzature rispetto alla realtà, ma la Angela che rappresento è davvero nella sua vita una donna molto timida che non esce quasi mai dalla sua casa, ha una presenza forte e discreta e la sua forte personalità si avverte chiaramente anche quando lei resta in silenzio. Mi sono rispecchiata molto in questa donna piena di umiltà, dignità e tenacia, ho riconosciuto in lei e nel suo modo di essere una parte della mia famiglia, una presenza analoga a quelle di alcune parenti di mio padre. È bello poter rendere giustizia ad una persona simile attraverso un racconto destinato al grande pubblico. Angela non è una superdonna, ma alla fine in qualche modo lo diventa. La semplicità, la schiettezza, l’onestà, il rispetto di se stessi – valori oggi più che mai desueti – sono le caratteristiche che hanno permesso a Angela ed Ernesto di attraversare quarant’anni di vicissitudini, senza sacrificare la propria dignità.
Ci sono alcuni aspetti di Angela in cui si è riconosciuta?
Molti dettagli del look della donna che interpreto sono stati cercati perché io somigliassi il più possibile al modello originale, sebbene sia molto diversa dalla vera Angela: credo che quello che abbiamo in comune sia l’onestà e il rispetto per gli altri. La sana complicità che esiste tra lei ed Ernesto è un valore in cui anche io credo tanto, e il mio lavoro principale sul personaggio è stato quello di togliere a questa donna ogni tipo di malizia e di darle la maggiore sensibilità possibile, un candore schietto di fondo, una purezza nitida come quella di un diamante: tutto questo è stato molto cercato.
Che relazione si è creata in scena con Elio Germano?
I nostri personaggi erano descritti molto bene, ma Giovanni ci ha dato comunque molta libertà di movimento. Recitare con Elio è stato un regalo del cielo: è una persona straordinaria, ho molto apprezzato il fatto che ogni giorno alla fine delle riprese lui non cambiasse mai; è coltissimo, saggio, aperto, stimolante, una persona generosissima e un attore fantastico. Nei momenti di incertezza è sempre pronto a prenderti per mano e portarti con sé, e questo è davvero rassicurante: con lui non mi sono mai sentita persa, mi sentivo sicura di tutto e questa è stata per me una sensazione bella e rara. Per quanto riguarda Giovanni, devo confessare che se lui volesse, andrei ogni sera a cena a casa sua: è molto simpatico e spiritoso, un compagnone adorabile (e poi la sua compagna Valeria Solarino è bravissima in cucina..). È un regista che sa benissimo quello che vuole, quando inizia a girare ha già il montaggio chiaro in mente, e questo un attore lo percepisce. È in grado di trasmetterti una consapevolezza che altrimenti non avresti se ti trovassi da sola alle prese col tuo personaggio, non ti abbandona mai a te stessa. È un regista attento e premuroso, mi ha diretto con molta cura ed attenzione e questo per me è stato molto utile e gratificante. E poi è una persona molto sensibile, dietro l’apparente cinismo che si diverte ad esibire ha un grande rispetto per la vita dei personaggi che rappresenta; gli piace fare il duro, ma in realtà è un romantico, ed era bello per noi seguire questi lati del suo carattere: tra i due protagonisti si intravedeva l’amore senza che ci fosse bisogno di sottolineature esplicite, le nostre scene erano pulite, semplici, rispettose, senza mai nulla di volgare. Ha raccontato questo amore in una maniera vecchio stile che proviene dal suo modo di essere e di pensare, ma poi io ed Elio in scena abbiamo anche aggiunto qualcosa che apparteneva a noi …
Come si è trovata con Ricky Memphis?
Mi ha sorpreso moltissimo, ero una sua fan da sempre come spettatrice e ho scoperto che nella vita è praticamente uguale ai personaggi che interpreta: è un comico nato, ha mille paturnie, e questa cosa lo fa diventare ancora più buffo e divertente. A volte sembra la caricatura di se stesso. Ma oltre ad una forte simpatia naturale, ha anche un’umanità disarmante, vive con disagio il mondo del cinema e il personaggio pubblico molto popolare che è diventato, preferisce la vita vera e questo lo rende molto più gradevole ed affascinante. Avevamo diverse scene da recitare insieme, e tra noi è nata subito una bella amicizia, abbiamo familiarizzato così tanto che ormai lo sento come una persona di famiglia, gli voglio davvero molto bene.
Ricorda qualche momento particolarmente curioso o buffo della lavorazione?
Capitava spesso che in una sola giornata di lavoro io ed Elio venissimo truccati in vari modi diversi a seconda dell’età dei nostri personaggi in scena. Secondo il programma giravamo magari una sequenza ambientata negli anni ’60 e poi subito dopo un’altra in cui i nostri protagonisti si ritrovavano ai nostri giorni: puntualmente, dopo essere stata invecchiata a dovere, Giovanni mi prendeva in giro dichiarando convinto: «Meglio da vecchia che da giovane!». Allo stesso modo quando per Elio arrivava il momento di togliere la parrucca che gli avevano aggiunto per una certa scena, lui si rendeva conto con stupore di avere nella vita molti meno capelli su cui poter contare, e iniziava a disperarsi: da parte nostra c’era una forte complicità scherzosa, e il clima generale sul set era gioiosamente allegro. La prima scena che ho girato prevedeva il massimo dell’invecchiamento di Angela, ma quando dopo qualche giorno ne abbiamo girata un’altra in cui il mio personaggio aveva solo 18 anni, diverse persone della troupe mi si sono presentate di nuovo convinte che io fossi un’attrice diversa da quella che avevano visto recitare la volta precedente.
L’intervista a Ricky Memphis
Che cosa le è piaciuto di più in questo progetto?
Sono rimasto subito affascinato dalla storia e dai personaggi, sia da quello del protagonista (interpretato da un Elio Germano strepitoso), sia dal mio, il suo amico Giacinto, tipico rappresentante di una certa epoca. Anche Giacinto non si arrende all’idea di essere un’ultima ruota del carro, vuole emergere e svoltare – come si dice a Roma – e per farlo non si ferma di fronte a niente, nemmeno di fronte all’illegalità. Rappresenta tanta gente che si agita, briga, annaspa e cerca di restare in piedi con ogni mezzo, ma in fondo rimane un disperato che cerca di restare a galla in ogni modo: per questo ho cercato di trovare in lui anche un lato poetico.
Non è un uomo senza scrupoli morali, un personaggio completamente negativo?
A me fa simpatia, anzi quasi pena: è un tipico italiano del suo tempo che briga e arraffa senza arrivare mai da nessuna parte; viene usato un po’ da tutti, pensa di aver risolto la sua vita quando si ritrova ad andare al lavoro in ufficio vestito con giacca e cravatta, è portato a minimizzare sempre e comunque le conseguenze dei propri comportamenti truffaldini e coinvolge più di una volta Ernesto in avventure e affari improbabili. Ma in fondo è molto legato a lui e alla sua famiglia, gli vuole bene davvero. Giacinto crede di essere scaltro, e spesso lo è, ma quelli che gli girano intorno sono molto più furbi di lui, veri e propri squali. È un tipo invadente, irruento, di scarsa sensibilità e di pochi scrupoli; non si ferma di fronte a niente, è sarcastico, porta con sé insomma tutta una serie di difetti che al cinema hanno sempre fatto ridere… i nostri grandi attori brillanti del passato con questi cattive qualità hanno dato vita a film meravigliosi. L’idea di base di Veronesi credo sia stata – in linea con le nostre migliori commedie di costume – quella di mettere in evidenza come i difetti e la drittaggine, oltre che divertire, possano sconfinare nella delinquenza vera e propria.
Che rapporto si è creato con Giovanni Veronesi, c’è stata la possibilità di arricchire le scene sul set andando al di là del copione?
Giovanni mi ha raccontato la sua storia e il modo in cui intendeva portarla in scena, poi me l’ha fatta leggere e in seguito ha incontrato varie volte sia me che Elio Germano per spiegarci come avrebbe voluto che ci accostassimo ai nostri caratteri. Ha rappresentato per me una bellissima sorpresa, mi si è rivelato non solo come un grande regista ma anche come una bella persona a livello umano: è molto simpatico, con lui ho riso tantissimo. Sul suo set è completamente padrone della situazione, sa sempre bene quello che vuole o non vuole, e comunica a tutti questa sicurezza. E poi è ironico e cinico, ha il dono naturale di una grande carica istrionica. Lo diverte molto recitare l’atteggiamento caustico, la cattiveria sferzante da toscanaccio. È capace di raccontare numerosi aneddoti con dei tempi comici perfetti: potrebbe fare benissimo l’attore comico insomma.
Come si è trovato con Elio Germano ed Alessandra Mastronardi?
Molto bene, non li conoscevo personalmente, ma tra noi è nato presto un ottimo rapporto fatto di rispetto reciproco e di grandi risate. Su questo set ho avuto la fortuna di incontrare compagni di lavoro che erano non solo dei grandi professionisti, ma anche persone piacevoli e semplici, nel senso migliore della parola. Questa è stata una bellissima sorpresa perché in genere gli attori non sono affatto semplici. Elio è un tipo aperto, ma in modo riservato. Inoltre è un attore completo, un talento assoluto: lo avevo visto e apprezzato al cinema, e quando lo vedevo così bravo nei suoi film pensavo che fosse uno di quelli interpreti concentrati al massimo tipo Robert De Niro… invece ho scoperto che ride e scherza volentieri con tutti sino ad un attimo prima del ciak: appena il regista chiede di girare lui si trasforma e si immedesima pienamente nel suo personaggio. È un attore in grado di fare il suo mestiere alla grande senza troppi intellettualismi, e porta sempre a casa un gran risultato. Alessandra Mastronardi, poi, si è rivelata una persona deliziosa e una grande attrice, sembrava che ci conoscessimo da sempre: tra noi ci siamo subito sentiti a casa, perfettamente a nostro agio.
Si tratta secondo lei si una commedia insolita nel panorama italiano?
È il racconto di quaranta anni del nostro Paese visti dagli occhi di uno degli ultimi, è una storia descritta con l’ironia propria delle persone semplici messe di fronte ad eventi più grandi di loro, e rappresenta secondo me un raro esempio di cinema di qualità in grado di far ridere, pensare, commuovere ed appassionare. Abbiamo avuto la fortuna di poter contare sulla grande professionalità di un cast e di una troupe di grande livello che hanno dato il massimo per realizzare nel migliore dei modi un film obiettivamente faticoso e non semplice. Elio ed Alessandra, ad esempio, si sono rivelati due mostri di professionalità, sottoponendosi sempre con grande pazienza e grande serenità a certe sedute di trucco lunghe e complicate: non so come abbiano fatto a sopportarle quasi ogni giorno, io ho dovuto subire 4 ore di trucco una volta sola ed è stato terribile…
L’intervista ad Alessandro Haber
Come è stato coinvolto in questo film?
Aspettavo di tornare a recitare con Giovanni Veronesi da circa 20 anni, dopo la splendida opportunità che mi aveva offerto con la sua commedia Per Amore, Solo per Amore. Devo confessare che da allora in poi, ogni volta che lui non mi ha scelto per un suo film ne ho sofferto un bel po’, ma al di là delle mie ansie, io e lui siamo sempre restati sempre fraternamente amici. Il personaggio che interpreto ne L’Ultima Ruota del Carro non ha un nome vero e proprio, viene chiamato semplicemente Maestro: è un pittore/scultore di alto livello e dalla vita sregolata, che quando conosce il protagonista della nostra storia, Ernesto, si accorge della sua umiltà e della sua purezza che risaltano in modo speciale rispetto alla famelicità dei tanti personaggi ambigui che circondano la vita di un artista. Ernesto rappresenta agli occhi del Maestro la semplicità senza sovrastrutture: vede in lui qualcuno che ha ancora la capacità di stupirsi e di sorprendersi grazie alla sua costante e disarmante curiosità, pertanto gli si affeziona, lo fa diventare il trasportatore di fiducia delle sue opere e finisce quasi col fargli da padre. Il mio personaggio è ancora in grado di mettersi in gioco, ma gli accade soltanto quando dipinge, allorché si scatena liberando un’energia profonda che fa emergere fantasia e passione. Altrimenti la sua vita è piuttosto semplice e normale: forse fa uso di droghe, ma l’ipotesi è soltanto accennata, perchè abbiamo voluto evitare il cliché dell’artista maledetto. Giovanni è stato molto bravo a parlarmi tanto di questo personaggio, descrivendomelo a fondo in ogni dettaglio, e così abbiamo potuto costruire insieme un uomo che a volte si lascia andare ondeggiando tra genio e sregolatezza, ma ad uno sguardo più profondo rivela una sua forma di malinconia, una sua poetica, una sua delicatezza…
Che tipo di collaborazione si è creata con Mimmo Paladino?
Quando Veronesi mi ha detto che stava cercando un pittore di alto livello per fargli realizzare le tele che in scena sarebbero state filmate come opere del Maestro, gli ho suggerito di coinvolgere Mimmo Paladino, un grande artista contemporaneo che conoscevo bene da tempo. L’ho cercato io e l’ho messo in contatto con Giovanni, e lui dopo aver letto la sceneggiatura ed esserne rimasto incantato si è subito messo a disposizione del film senza chiedere nessun compenso. Paladino mi ha insegnato le regole fondamentali per tenere adeguatamente il pennello in mano e il modo in cui ci si deve porre davanti ad una tela, e mi ha trasmesso sempre molta sicurezza: tutte le volte che abbiamo girato una sequenza che rivelava l’estro creativo del personaggio mi sono sentito più che protetto, allo stesso modo di come il Maestro protegge Ernesto e gli diventa amico. In fondo abbiamo raccontato una storia di affetto e di amicizia tra due persone agli antipodi tra loro, che hanno ancora voglia di mettersi in gioco e che sono entrambe portatori di una forma di candore, sia pure in modi differenti.
Ha seguito qualche modello particolare per costruire il suo personaggio?
Forse mi sono ispirato proprio a Mimmo Paladino, senza però pensare direttamente alla sua maniera di camminare o ai suoi modi, ma piuttosto facendo riferimento alla sua schietta semplicità di vivere il quotidiano: è una persona normalissima che potrebbe fare qualsiasi mestiere, ma quando si esprime artisticamente il genio prorompe come una sorta di eruzione improvvisa… È il mistero della creatività, anche Elio Germano, ad esempio, è un ragazzo normalissimo come tanti altri: può essere facilmente scambiato per un giovane professionista impegnato in un qualsiasi altro mestiere, ma poi quando si trova davanti alla cinepresa accade qualcosa di magico e si trasforma in maniera mirabile. Non ho mai cercato l’imitazione diretta di qualcuno, ricordo che quando a 25 anni ho interpretato un cieco ne Il Conformista di Bernardo Bertolucci ero andato in un istituto per studiare da vicino una certa tipologia, ma in seguito ho cercato di essere sempre artista a modo mio. Davanti a un personaggio da interpretare cerco di entrare in quel particolare mondo che sono chiamato a rappresentare, o per lo meno di avvicinarmici il più possibile, ma ho un carattere piuttosto prorompente e questa volta Veronesi è stato molto bravo a contenerlo per evitare una mia eccessiva estroversione. Sono un attore che cerca di mettersi in gioco e che si adatta ogni volta, posso essere uno stravagante, un cattivo o un angelo, ma ogni volta cerco di arrivare alle condizioni ideali. Dipende dal copione e dal regista – che in questo caso erano fantastici – e dai compagni di lavoro, e su questo set ho potuto contare su un protagonista coi fiocchi come Germano con cui potevo interagire e giocare bene in scena: c’erano tutti gli ingredienti giusti per fare nascere qualcosa di interessante, insomma.
Come si è trovato con Elio Germano?
Considero Elio un attore perfetto, forse quello di maggior talento oggi in circolazione. È capace di una grande naturalezza, che però coltiva e asseconda preparandosi sempre adeguatamente con grande rigore. Sulla sua faccia c’è sempre grande verità, è sempre magicamente vero, non recita ma vive i personaggi che interpreta. C’è stata subito una grande sintonia, una forte energia, un immenso amore per il nostro lavoro e un piacere reale di stare sul set a fare qualcosa che ci coinvolgeva emotivamente. Spesso tra noi non c’era nemmeno bisogno di parlare. Abbiamo discusso a lungo dei nostri personaggi prima delle riprese, e poi quando ci siamo ritrovati sul set ogni volta magicamente accadeva qualcosa, ci siamo passati bene la palla in campo, abbiamo giocato puntando ad un rendimento alto, anche sconfinando qualche volta fuori dal copione… ci siamo divertiti ad improvvisare insieme, ma poi certe intuizioni del momento diventavano serie e concrete. Giovanni mi aveva parlato molto a fondo di lui, ma una volta che ci siamo ritrovati sul set è stato tutto molto facile e ci ha messo nelle condizioni di dare il meglio per la stima e l’affetto che nutriva per noi. È stato per me un bellissimo viaggio di attore, di rara qualità, insomma.
Quali sono secondo lei caratteristiche vincenti di Veronesi come regista?
È intelligente, sa scrivere, ha ironia e sarcasmo, il giusto graffio cattivo; in certi casi mi ricorda un po’ Mario Monicelli, per il suo umorismo toscano e perché dice sempre quello che pensa. È uno che ha fatto una lunga gavetta come sceneggiatore e come regista, e oggi è arrivato ad un livello in cui può esprimersi pienamente, da artista libero. In questa occasione ho avuto la possibilità di vedere all’opera da vicino anche Domenico Procacci, che a sua volta è un produttore che si mette sempre in gioco. Il connubio tra lui e Giovanni è vincente, i due appartengono alla stessa generazione, parlano lo stesso linguaggio, tra loro c’è una serie di elementi comuni e una bella coesione creativa e sono certo che potranno fare davvero un bel percorso insieme.
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