Sono passati poco più di dieci anni da quando ha preso vita e mosso i suoi primi passi la “Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere”. Un’aggregazione di cui molti ignorano l’esistenza, come poco si sa dell’importanza della libertà di stampa nel luogo più lontano dalla luce dei riflettori o semplicemente dalla trasparenza dell’informazione. Portare fuori dalle mura degli istituti di pena quanto succede all’interno è una missione determinante per il raggiungimento di una civiltà degna di tale nome.
I giornali delle carceri italiane, non ancora abbastanza numerosi, sia per le ovvie difficoltà di tipo logistico sia per la resistenza ottusa di molti direttori degli istituti di pena, hanno sempre avuto un capofila: la testata “Ristretti Orizzonti”, il notiziario quotidiano del carcere di Padova che da quasi vent’anni ha un ruolo determinante in tanti fatti e misfatti di cui l’opinione pubblica non era a conoscenza. Pensiamo alla morte di Stefano Cucchi e a quella di tanti altri, sulle quali ancora si aspetta chiarezza. Pensiamo alla necessità di riconoscere che la tortura è una realtà anche italiana, e che aspetta ancora il riconoscimento di reato. O ai mille e mille episodi di autolesionismo che hanno per protagonisti i detenuti più fragili.
Ecco, dopo tutto questo, dopo l’importanza che “Ristretti Orizzonti” ha rivestito nella crescita del Paese, il quotidiano di Padova rischia di chiudere e scomparire alla vigilia del suo ventesimo compleanno. Una possibilità concreta alla quale ogni italiano degno di tale nome non può assistere in silenzio.
Dice Ornella Favero, direttrice di “Ristretti Orizzonti: “Quando con i detenuti della mia redazione mi batto per una assunzione di responsabilità da parte loro rispetto ai reati che hanno commesso, e alle persone che hanno offeso, mi trovo poi in grande difficoltà se a non rispettare la legge, e a non assumersi la responsabilità delle illegalità commesse, sono proprio le istituzioni”.
Mentre si preferisce parlare di sicurezza finanziando l’acquisto di telecamere invece del reinserimento delle persone detenute, il quotidiano rischia di morire per difficoltà finanziarie. “La sicurezza si costruisce investendo sui percorsi di responsabilizzazione – continua la direttrice -, non sulle città blindate e le carceri abbandonate. Anche perché, come ha detto il ministro della Giustizia alla conclusione degli Stati Generali sull’esecuzione penale, le persone che sono state “a marcire in galera fino all’ultimo giorno”, quando poi escono dal carcere per il 70% tornano a commettere reati. Oggi nessuno investe più sui “soggetti difficili”, si preferisce fingere che i “buoni” siano tranquillamente e sicuramente buoni e possano fregarsene dei “cattivi”, e così noi, che come dice Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, non vogliamo buttare via nessuno”.
I giornalisti e i volontari che operano nelle carceri italiane comattono ogni giorno per una assunzione di responsabilità da parte dei detenuti rispetto ai reati commessi. “ E io mi provo rabbia – conclude la direttrice del giornale – quando per esempio questi comportamenti sono messi in atto dagli Enti locali o dai Ministeri. Eppure, qualche giorno fa ho dovuto provare a chiedere a una Banca un prestito non perché abbiamo gestito male le risorse di cui disponevamo, ma perché avanziamo pagamenti di soldi anticipati da noi da anni”.
https://www.ristretti.it/commenti/2016/maggio/appello.html
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