A Pier Paolo Pasolini, il suo maestro, con il quale aveva esordito nel cinema come aiuto regista in Accattone (1960), Ultimo tango a Parigi (1972) non piacque affatto, e Bernardo se ne addolorò non poco. E pensare che alcuni dialoghi – per esempio nella sequenza in cui Jeanne (Maria Schneider) prova l’abito da sposa – furono scritti niente meno che da Alberto Moravia, su richiesta dello stesso Bertolucci, che amava contaminare i testi, avendo rinunciato, con intelligente leggerezza, alla mitologia dell’autore, inteso come unico artefice della propria opera. C’è una contraddizione essenziale che attraversa il film più idolatrato del regista di Parma, ovvero credere di poter abdicare all’identità, e a tutta la rigida griglia di doveri che essa prescrive, attraverso l’Eros. Eros che, è doveroso sottolinearlo, in Ultimo tango a Parigi è mezzo e non fine. Osservazione banale, certo, ma necessaria laddove spesso lo si è etichettato come il film erotico per eccellenza. Bernardo, partendo da uno spunto autobiografico – aveva avuto un incontro sessuale con una sconosciuta -, sviluppa una fantasia che diventa il tentativo impossibile di smarcarsi dall’immobilità dell’ordine simbolico in cui si è per lo più inseriti (famiglia, lavoro, società). Schematizzando al massimo, si potrebbe affermare: solo dove c’è desiderio c’è vita, il resto è morte.
Per capire meglio l’equivoco, si può iniziare dai bei titoli di testa del film, in cui sullo schermo diviso a metà appaiono le figure di un uomo sdraiato su un sofà e di una donna seduta su una sedia, entrambe opere del grande pittore Francis Bacon. Ma Bacon aveva pensato fino in fondo la possibilità di una liberazione, tramite la totale negazione dell’identità. Non attraverso l’Eros, ma con il superamento di esso. Non c’è più un soggetto che vibra di desiderio, ma, a rigore, non si è più soggetti. Al desiderio subentra una “svogliatezza”, cioè il disinteresse puro, ciò che davvero, attraverso un gesto titanico, sovrumano, può sottrarre ai numerosi rapporti di forza cui siamo costantemente sottoposti. Il sesso è ancora dialettico, è ancora Tu ed Io. Solo con il sopraggiungere di una totale indiscernibilità, forse – ma è difficile pensarla fino in fondo, vengono quasi le vertigini -, si può accedere a un piano d’immanenza in cui viene trasfigurata la realtà. Bertolucci si approssima al limite, ma non osa varcare la soglia che aprirebbe le porte dell’abisso. Tant’è che i suoi due amanti non appena si ritrovano fuori dall’appartamento clandestino ricadono nell’ordine (ma non si erano mai realmente emancipati da esso) da cui avevano tentato vanamente di fuggire. E il finale è tragico, impietoso.
“Io non lo conosco. Non so come si chiama”, dice Jeanne pensando a ciò che dovrà raccontare alla polizia per giustificare il suo delitto. Il corpo di Paul, accasciato sul terrazzo di un palazzo parigino, diviene il resto di un messa in scena destinata fin da subito al fallimento. Ma ad essere onesti fino in fondo, non si può neanche imputare del tutto a Bertolucci il limite del suo teorema, piuttosto è il dispositivo cinema che solo in rarissimi casi riesce ad andare oltre se stesso. Quando fa segno a un fuori campo assoluto, sprofonda nell’invisibile, con una torsione acrobatica il cui movimento può compiersi completamente grazie allo sguardo dello spettatore (un’opera si realizza definitivamente quando incontra il versante della fruizione, non è solo la creatura del suo autore).
Eppure, nonostante le osservazioni che gli si possono muovere, Ultimo tango a Parigi non cessa di esercitare uno straordinario fascino. Il tempo non l’ha reso obsoleto, laddove il film è riuscito a catturare atmosfere preziose: quelle degli scorci fugaci di una Parigi affascinante come non mai, delle posture impossibili di Paul/Brando, delle esitazioni di Jeanne/Schneider, dell’ingenuo entusiasmo del regista nouvelle vagueiano Tom/Leaud. E poi, i dettagli, a bizzeffe: la risata inquietante della portinaia di colore, la signora anziana che pulisce la dentiera, la donna genuflessa che cuce il bottone dei pantaloni del compagno, la prostituta che perde il cliente. Piccoli cortocircuiti che sabotano l’intreccio principale, come se Bertolucci avvertisse il bisogno di stemperare la drammaticità della vicenda, puntellandola con numerose trovate tra il grottesco e l’ironico. Perché sì, senz’altro, c’è anche molta ironia in Ultimo tango a Parigi, a cominciare dai dialoghi spesso inconsistenti tra Paul e Jeanne.
Su tutto si stagliano i gialli pieni di grazia di Vittorio Storaro, che abbandona i rossi e i blu de Il conformista, e le suadenti musiche di Gato Barbieri, contribuendo in maniera decisiva a dotare il film di quell’aura leggendaria che ancora oggi non cessa di ammantarlo.
Il film fu proiettato integralmente, in anteprima mondiale, il 14 Ottobre 1972 a New York. In Italia uscì nelle sale il 15 Dicembre 1972 a Porretta Terme, nell’ambito delle manifestazioni legate alla Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, un giorno dopo l’anteprima europea che si era svolta a Parigi. Ultimo Tango a Parigi risulta essere il secondo film italiano di maggior successo della storia in Italia per numero di biglietti staccati, con ben 15.623.773 spettatori paganti. La versione integrale dura 136 minuti. A 46 anni dalla sua realizzazione, è tornato nelle sale cinematografiche nel Maggio 2018 nella versione in lingua originale, restaurata in 4K a cura della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, con la supervisione di Vittorio Storaro per l’immagine e di Federico Savina per il suono. Ora grazie a CG Entertainment il film è finalmente disponibile in blu ray per la folta schiera dei suoi tanti ammiratori.
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