La sua opera prima come regista, “Un posto sicuro”, ha ricevuto riconoscimenti di pubblico e critica, non ultima la Menzione Speciale al Galà del Cinema e della Fiction in Campania. Francesco Ghiaccio quel film ha sentito l’urgenza di raccontarlo, chiedendosi come mai nella città dove era cresciuto in Piemonte, Casale Monferrato, di amianto le ultime generazioni non sapessero nulla. E i 3.000 morti per cancro sembrano appartenere al passato, con pochi ad avere la consapevolezza che il dramma continua e che i numeri possono ancora cambiare. Il film non è solo la nebbia del Nord e i tetti di amianto ma anche la storia intensa e dolente di un figlio che impara a conoscere il padre e ad amarlo.
Francesco Ghiaccio è una persona pura, capace di trasformare le emozioni in parole e di trasmettere il suo entusiasmo. Lo sguardo intenso, a volte così intenso da dare l’impressione di volerti indagare l’anima, tradisce una capacità potente di emozione e di empatia . A interpretare il film ha chiamato il suo alter ego Marco D’Amore (il Ciro Di Marzio di “Gomorra – La serie”), al quale è legato da una lunghissima amicizia iniziata alla scuola di teatro “Paolo Grassi” di Milano. Con lui ha scritto la sceneggiatura di “Un posto sicuro”, e non poteva essere altrimenti.
Ora il film è disponibile nella versione noleggio in dvd, ed è possibile vederlo anche su ITunes e Google Play. Abbiamo incontrato il regista per conoscerlo e conoscere meglio il suo lavoro.
Molti hanno definito il tuo film come un’opera che si inserisce nella migliore tradizione italiana del cinema di impegno sociale. Trovi questa valutazione restrittiva o inesatta?
E’ stato bello sentirselo dire. Per il mio film sono stati citati i nomi di Francesco Rosi, di Elio Petri. Per me questo è stato motivo di grande soddisfazione, l’ho letto come un grande riconoscimento. Però io non ho fatto questo film per dimostrare il mio impegno sociale. Tutto è nato in maniera molto sincera e molto spontanea dal punto di vista emotivo. Poi sì, intorno c’è stato tutto il lavoro della professione e della professionalità, e questo ha un po’ fatto da argine a tutte le grandi emozioni che ci sono dentro questa storia. Io ho cercato di raccontare quello che sentivo, quello che in quel momento era il mio posto all’interno di una società che si era rivelata improvvisamente strana, lontana. Casale Monferrato era la città in cui io ero cresciuto, la città che non ha fatto nulla sul disastro dell’amianto. Oppure io non avevo ascoltato, oppure chi denunciava la cosa era lasciato solo, messo da parte. All’inizio erano in pochi, sindacalisti, gente che aveva capito e persone che avevano vissuto un lutto. E anzi, quel lutto era tenuto lontano, come se la vicinanza avesse il potere di contagiarti. Ho sentito diverse volte la frase “C’è ancora qualcuno che parla d’amianto”, senza che queste persone si rendessero conto che non parlarne significa esattamente lasciarlo ancora lì.
Nel tuo film appare un museo dell’amianto, con le storie i filmati, i numeri..
Quella che loro definiscono un’aula multimediale (in realtà, molto più bella di quanto abbiamo fatto vedere noi per esigenze cinematografiche), è stata aperta dopo le riprese del film. Mi hanno fatto la cortesia di affrettare i lavori per consentire le riprese. La cosa bella è che tanti, in giro per l’Italia mi chiedono: “Ma esiste davvero?”.
Il film com’è nato?
C’è stata la fase della documetazione, abbiamo incontrato la popolazione, ascoltato storie, e quindi c’era già l’idea del film, ma non avevamo idea di che storia avremmo raccontato. C’erano tante vicende, tante vite che si incrociavano.Poi, finalmente, Marco D’Amore e io abbiamo trovato il nostro punto di vista e scritto la sceneggiatura. L’angolazione era “Io di questa storia non ne sapevo niente”. Questa consapevolezza ha cominciato a fare da spartiacque tra il prima e il dopo. Il protagonista inizia e conoscere il padre e con lui la vicenda dell’amianto. Ci sono due movimenti simili, uno emotivo e uno sociale.
C’è tanto materiale umano e narrativo da poter dare vita a una serie, vero?
Ci anniamo pensato, ma poi abbiamo scartato l’idea.. E’ bello prendersi quell’ora e mezza in cui raccontare una storia, che in sala taglia fuori tutto il resto lasciandoti con la magia del cinema.

Francesco Ghiaccio
Questo è il tuo primo film da regista. Ti sei sentito a tuo agio dietro la macchina da presa?
Cinque settimane con cinquanta persone intorno, ma sono andato sul set molto tranquillo perché avevo passato a tutti il senso della storia. Marco ed io siamo stati rapiti dalla dignità e al coraggio di chi ci ha fatto partecipi della sua storia.. A un certo punto abbiamo sentito l’esigenza di raccontare e abbiamo cominciato a fare il film senza pensare a produttori e distributori.
Domanda alla Marzullo: il cinema che tu senti che cos’è? E’ visione? O affabulazione, desiderio di trasmettere un’emozione. Indurre il pubblico a riflettere, raccontare storie…
Penso in continuazione a questo. Per me il cinema ha una sorta di segreto al quale arrivi attraverso una magia. Puoi avere fatto scuole di teatro, di regia o d’altro senza mai arrivare a toccare questa magia. Dentro il cinema, quando si fa cinema, c’è qualcosa di misterioso che è inspiegabile. Che ha a che fare con il visivo e l’affabbulazione e se la storia passa la palla all’attore, e lui di rovesciata fa un gol in modo istintivo, se questo accade quello che tu trasmetti in ogni inquadratura, e in definitiva in tutto il film, è qualcosa che supera il film stesso e tutti noi che lo facciamo. Qualcosa che è più grande di noi perché racchiude l’esperienza e il lavoro di tutti.
Un nuovo film?
Me lo chiedono in molti, e ci sono già delle idee. Non te ne voglio parlare per scaramanzia, ma mi piacerebbe cambiare genere.
Lascia un commento