Sessant’anni fa, in un’annata cinematografica contraddistinta da un formidabile impeto creativo come il 1959, François Truffaut faceva uscire in una première al Festival di Cannes un film perfetto e un assoluto stilistico come I 400 colpi.
Parlare di questa pellicola rappresenta per chi scrive un’emozione tale che spero chi mi stia leggendo in questo momento perdonerà l’autoreferenzialità e la presunzione della prima persona. D’altronde tanti fiumi di parole hanno già occupato tutti gli spazi critici dedicati a questo film che forse solo altre righe più “in soggettiva” possono aggiungere ancora qualcosa a quanto già detto. Forse.
Avevo circa l’età del protagonista, il piccolo Antoine Doinel, quando vidi I 400 colpi per la prima volta alla televisione. Non sapevo chi fosse Truffaut e nepppure che esistesse un movimento chiamato Nouvelle Vague, ma quelle immagini in bianco e nero rimasero un punto di riferimento indelebile per la mia educazione cinematografica e culturale, un po’ come in letteratura, per me come per tanti altri della mia generazione, c’erano stati Pavese e Dostoewskij. La prima cosa che mi affascinò fu il modo così vero in cui il film rendeva le atmosfere della quotidianità familiare. La casa un po’ fatiscente dell’umile impiegato sposato con la bella mamma di Antoine, che solo sfilandosi le calze riesce a dare un’idea del mistero peccaminoso degli adulti visto dagli occhi di un bambino. Le liti dei genitori, le bugie, i tradimenti. I compagni di classe come soldatini asserviti, l’insegnante intriso di perbenismo e autoritarismo patriottico, l’inquadratura stretta sul frontone della scuola che reca la scritta “Liberté Egalité Fraternité”. La scuola è una gabbia da cui fuggire, una gabbia come la famiglia e come sarà poi il riformatorio. La libertà, grida tutto il film, la libertà via, lontano. Via dall’ipocrisia delle regole borghesi, dagli schiaffi di chi non ha capito quando volevi farcela, quando ci hai provato e ti è andata male. Anche se il prezzo della fuga è sempre la solitudine.
Cinema vero, dove la verità è bellezza e per capirlo non occorre aver letto un saggio sulla Nouvelle Vague. Basta incontrare lo sguardo di Antoine per affezionarvisi ed essere dalla sua parte sempre, anche quando ruba una macchina da scrivere per impegnarla e poter bighellonare con l’amico per le strade di Parigi o perdersi tra gli occhi immensi dei bambini a uno spettacolo di marionette, e nell’unica soggettiva del film, quando la macchina da presa gira in tondo impazzita sui volti di chi guarda Antoine aderire alla pareti della giostra che lo solleva da terra per la forza centrifuga.
Lo sguardo sull’infanzia di François Truffaut ha il sapore dolce e malinconico di una madeleine che si scioglie piano in bocca, stregando i sensi. E anche il tuffarsi nel materiale autobiografico, almeno un po’ autobiografico, riesce a strappare il sorriso per l’innocenza di quelli che allora erano vissuti come drammi laceranti. Come l’irresistibile sequenza in cui Antoine rischia di dare fuoco alla casa per aver acceso un cero dietro una nicchia improvvisata con l’effige di Honoré de Balzac, su cui grava la responsabilità di far svolgere ad Antoine il miglior tema della classe. La purezza di quegli attimi infantili non si infrange ancora irreparabilmente contro la realtà, non ci troviamo ancora a quel punto di non ritorno, e la forza rivoluzionaria dell’innocenza che vuole rimanere tale pervade tutto il film. Rivoluzionaria come il ritmo dell’affamata macchina da presa di Truffaut, che interagisce con la realtà fino a generare un originale effetto documentaristico. Era stato proprio il regista, incredibilmente qui alla sua prima prova, a teorizzare appunto nel 1959 che “si devono filmare altre cose, con altro spirito. Si devono abbandonare gli studi troppo costosi […] Il sole costa meno caro dei proiettori e dei gruppi elettrogeni. Si deve girare per le strade e in veri appartamenti […]. Lasciare che glii attori trovino le parole che hanno l’abitudine di pronunciare”
Truffaut sceglie di girare I 400 colpi nel quartiere della sua infanzia, la Parigi con al centro Place de Clichy, nella zona che ancora oggi è affollata di prostitute, protettori, criminali, locali a luci rosse (c’è anche il rinnovato Moulin Rouge). Nella storia del tredicenne Antoine, che bigia la scuola con l’amico, c’è molto del piccolo ribelle François Truffaut, in una trama solo in parte di fantasia. La notte trascorsa dal ragazzino alla centrale di polizia, prima che la camionetta sobbalzi sulle strade umide della città e lo porti al centro di detenzione minorile, disegna ancora una volta una gabbia, a ribadire l’isolamento e la solitudine del protagonista. Insieme alla regia coraggiosa di un maestro del cinema che sbatte in faccia allo status quo come siano proprio l’autoritarismo dei genitori e la miopia della società borghese a nutrire la ribellione adolescenziale, specie in un periodo dominato dall’ideologia repressiva europea e americana degli anni cinquanta e sessanta.
I 400 colpi, nonostante i suoi cinquant’anni, è destinato a rimanere un film perennemente giovane, capace di superare anche la prova più ardua: la visione in una scuola media, frequentata da ragazzini della stessa età del protagonista. Sono stata testimone dell’esperimento, e gli alunni sono rimasti letteralmente rapiti della visione, non hanno mai distolto gli occhi dallo schermo allestito nell’aula magna. Una riprova ulteriore del fatto che un capolavoro è un assoluto senza coordinate geografiche o temporali.
Tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini che chiudono il film, la fuga per la libertà e la corsa instancabile verso il mare con i capelli mossi dal vento. E le note della colonna sonora di Jean Constantin che vibrano e suggellano il fermo immagine del primo piano finale. Antoine è finalmente libero, quello che accadrà dopo non si sa. L’unica certezza è che un nuovo capitolo della sua vita è stato aperto.
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