Premio Adelio Ferrero 2024. Pubblichiamo il secondo posto nella sezione saggi, il saggio “Fare critica con altri mezzi. Un itinerario ragionato nel cinema di Luca Guadagnino” di Luca Ragazzo (Cuneo).
Fare critica con altri mezzi – Un itinerario ragionato nel cinema di Luca Guadagnino di Luca Ragazzo
Premessa
Nel gennaio del 2019, poco dopo l’uscita del chiacchierato remake di Suspiria (2018), Roberto Silvestri definì i film di Guadagnino dei “critofilm”. Il critico riprendeva la definizione coniata da Carlo Ludovico Ragghianti, integrandola con l’intervento di Luigi Faccini nel primo numero di Critica&Film; il “critofilm” si configurerebbe come la possibilità di mettere in atto la critica di un film, attraverso il mezzo cinematografico: “Come la critica letteraria anche la perifrasi del critico cinematografico diventa così linguisticamente identica all’opera e analoga al senso, alla struttura e al ritmo dell’opera filmica”(1). Secondo Silvestri l’opera di Luca Guadagnino sarebbe un “lavoro di tatuaggio” su alcuni film prediletti che vengono riscritti, abbelliti, rinnegati, criticati, in testi completamente nuovi. Questa considerazione, che evidenzia la stretta vicinanza tra la pratica del critico cinematografico e quella del cineasta, è però il risultato maturo di un approccio alla regia basato su un’idea di cinema chiara sin dagli esordi. Il lavoro che propongo è un itinerario ragionato tra alcuni film esemplari dell’opera di Luca Guadagnino, che ha l’intento di fissare i principi ispiratori del suo cinema. A guidare questa analisi è la relazione fondamentale tra la formazione teorica del regista e la sua prassi filmica; attraverso l’idea di un cinema che riflette sulla sua forma sarebbe possibile leggere le traiettorie principali del lavoro di uno dei cineasti più importanti del nostro tempo.
L’eredità della Nouvelle Vague e la ricerca di un nuovo linguaggio: The Protagonists e Mundo Civilizado
Nell’intervista che inaugura la prima monografia a lui dedicata, Luca Guadagnino viene interrogato sul rapporto che intercorre tra la sua attività di critico cinematografico – precedente alla carriera da regista – e quella di cineasta:
“Il cinema è una riflessione sul cinema. Mi sono formato su questa idea. Non mi interessa granchè lo sperimentalismo per sé. Né mi interessa il fatto che il cinema sia racconto. Certo, in parte lo è,
ma deve essere sempre una riflessione sul cinema, la mia via di interpretazione del reale” (2).
L’affermazione mette in chiaro il principio ispiratore della poetica del regista: quello di riflettere sul linguaggio cinematografico per saperlo articolare adeguatamente nella lettura del reale. Questa concezione affonda le radici nella rivoluzionaria esperienza della Nouvelle Vague e Guadagnino lo dice esplicitamente nelle considerazioni successive, quando sottolinea come i grandi maestri di quel movimento erano critici cinematografici e lo erano anche nei loro stessi film. La folgorazione dell’incontro con la Nouvelle Vague è, nelle parole di Guadagnino, la spinta decisiva al suo desiderio di diventare un regista, e si pone da subito come il suo principale modello teorico (3). Di conseguenza, il giovane cinefilo apprende dai cineasti francesi le prime grandi lezioni di cinema: il cinema inteso come linguaggio e non come stile; la fondazione di un’idea specifica di “autorialità” e, dunque, la rivalutazione e l’elevamento a maestri di figure come Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Jean Renoir (per citare i più noti); l’approccio dogmatico nei confronti di alcuni autori e di alcuni film, sul modello di ciò che scriveva Serge Daney quando – citando Godard – definiva le carrellate “una questione morale” (4). È questa la fonte primaria, la base teorica e concettuale su cui Luca Guadagnino edifica la propria idea di cinema, così come altri grandi cineasti hanno fatto prima di lui: tra questi, soprattutto Bernardo Bertolucci e Rainer Werner Fassbinder. I due autori non sono stati soltanto dei maestri sul piano della sperimentazione formale ma anche su quello commerciale. Certamente Guadagnino condivide con loro la modalità di approccio alla messa in scena, ma Bertolucci e Fassbinder sono soprattutto il simbolo di una nuova autorialità, diversa dal panorama indipendente della Nouvelle Vague francese e inserita in un contesto produttivo molto più restrittivo. I due autori hanno sfruttato i vincoli dell’industria hollywoodiana e tedesca in senso creativo per continuare a proporre un rinnovamento del linguaggio cinematografico senza uscire dal contesto industriale, ma rinegoziando la propria figura sul piano produttivo. Luca Guadagnino si pone come un continuatore di questa forma di autorialità, in un contesto più complesso e dominato dal mercato (5).
La formazione di Luca Guadagnino si muove, dunque, tra il cinema e la critica; tra lo studio del processo che porta alla realizzazione di un film e la comprensione delle possibilità espressive del mezzo cinematografico. Questo approccio pone come inscindibile il legame tra fare critica e fare cinema, due gesti che già Jean Luc Godard considerava inseparabili, contigui. Quanto detto prende forma già in The Protagonists (1999), il suo lungometraggio d’esordio, “un’opera che vuole decostruire, in ogni singola scena, l’atto stesso di fare cinema, mettendo in discussione di continuo il confine tra realtà e rappresentazione” (6). Il film, dall’accoglienza a dir poco scoraggiante per un regista esordiente, appare oggi come un interessante punto di partenza possibile per ripensare il corpo della cinematografia di Guadagnino. Il film segue una troupe cinematografica intenta a ricostruire un caso di omicidio realmente accaduto nel 1994 a Londra, dove due ragazzi della buona borghesia britannica decidono di uccidere un uomo scelto a caso nel quartiere di Bayswater per provare a loro stessi che potevano farlo. Il film, concentrandosi sulla ricostruzione dell’omicidio da parte di una troupe cinematografica inventata, si pone subito a metà tra il documentario e la finzione. Guadagnino, al debutto nel lungometraggio, si interroga sul rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione, sulla liceità stessa di questa rappresentazione; come scrive Raganelli, The Protagonists è una “dissezione cinematografica di un omicidio, il riappropriarsi da parte della settima arte di un soggetto cinematografico messo in scena nella realtà” (7). Attraverso la scelta di raccontare il lavoro della troupe nella realizzazione del film, il regista avvalora da subito quell’idea di cinema da cui siamo partiti e mette in scena la costruzione di un film potenziale. The Protagonists non è soltanto un’opera sperimentale, ma un film che non vuole essere nettamente classificato e che ha come principale obiettivo quello di interrogarsi sul gesto stesso di fare un film e sul suo senso. È significativo che in una recente conversazione, tornato su The Protagonists, Guadagnino metta in dubbio le sue scelte registiche, ma sempre a partire dai principi che lo muovevano venticinque anni prima: “[…] C’era bisogno di quell’apparato esuberante di messa in scena per entrare dentro una dolorosissima vicenda privata che ha visto la morte di una persona?” (8). Nonostante i limiti fisiologici di un’opera prima ambiziosa e di difficile inquadramento al tempo della sua uscita, Luca Guadagnino sembrava già avere in mente le lezioni dei maestri che lo avrebbero guidato nella sua carriera da regista.
Lo stesso principio di The Protagonists è alla base del successivo Mundo Civilizado (2003). Entrambi i film hanno un impianto formale ibrido – torna anche qui il modello della docu-fiction – che non cerca un’identità specifica, ma fa dell’essere aperto alla contaminazione di generi e supporti filmici diversi la propria peculiarità. In particolare, in Mundo Civilizado questa scelta formale è ideale per raccontare le vicende al centro del film. Anticipatori dei teenagers di We Are Who We Are (2020), i protagonisti del secondo film di Luca Guadagnino sfuggono a ogni classificazione e sono quello che sono. La macchina da presa li segue tra i locali notturni della scena musicale underground di Catania, dove incontrano e dialogano con giovani artisti e musicisti; in Mundo civilizado riecheggia così un’intera epoca di passaggio – i primi anni duemila – dove i giovani sono progressivamente più slegati da uno schema culturale, sociale e politico definito. La modernità in arrivo con il nuovo millennio sembra richiedere identità ibride, sempre pronte a ridefinirsi, per essere compresa. The Protagonists e Mundo Civilizado interpretano la realtà da diverse prospettive: la prima indaga il senso della rappresentazione, la seconda tenta di leggere il presente e restituirlo nel suo tempo. Già nel 2003, dunque molto prima del suo riconoscimento critico, il cinema di Luca Guadagnino ambisce a proporsi come un cinema contemporaneo.
La svolta di Io sono l’amore
Il discorso meta-cinematografico che tiene insieme i primi due film di Luca Guadagnino vede un passaggio decisivo nella realizzazione di Io sono l’amore (2009). La scelta di raccontare una storia apparentemente più convenzionale nelle premesse permette al regista di confrontarsi con alcuni dei testi a lungo amati dal Guadagnino cinefilo, critico e lettore. Presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e accompagnato da un’accoglienza critica divisiva, Io sono l’amore sembrerebbe confrontarsi con il sistema di pensiero fassbinderiano più che con quello di Luchino Visconti, citato diffusamente come il riferimento estetico e narrativo del film. Il lavoro del regista, che si presenta come un racconto sulla caduta dei valori borghesi nella società occidentale, racconta soprattutto la perdita di potere da parte del soggetto maschile e la forza rivoluzionaria del femminile. L’amore, chiamato in causa sin dal titolo, è un vero e proprio atto politico attraverso cui la protagonista si riappropria dell’identità che le viene negata e svela la debolezza di un intero sistema sociale. Il film è tutto costruito all’insegna del finale: Emma (Tilda Swinton) fugge da casa Recchi, sotto gli occhi di tutta la famiglia, per non tornare mai più. Poco prima aveva confessato al marito, il ricco industriale Tancredi, di essere innamorata di Antonio – più giovane, un cuoco – e Tancredi le aveva risposto “Tu non esisti”. La risposta di Tancredi esplicita la tendenza del personaggio – e di tutta una certa borghesia industriale cui appartiene – a cancellare tutto ciò che non riesce a capire. La forma frammentaria e inclassificabile che domina i primi film di Guadagnino, qui lascia spazio a un’elegante messa in scena dal sapore classico. Mentre l’apparato estetico si fa più leggibile, l’attività critica si mimetizza attraverso suggestioni più o meno evidenti ai maestri del passato, che obbligano lo spettatore a interpretare i riferimenti utilizzati. È Rainer Werner Fassbinder l’interlocutore prediletto in un dialogo ipotetico che ci guida nella costruzione del film. Io sono l’amore è un melodramma moderno e storicizzato, che omaggia le riscritture fassbinderiane dei melodrammi di Douglas Sirk (9). Non solo: anche la rappresentazione della figura femminile, tanto sovversiva quanto problematica – si pensi a Il matrimonio di Maria Braun (1978) e Le lacrime amare di Petra Von Kant (1972) – sono un’eredità fassbinderiana di cui Guadagnino si appropria in questo film, e che riutilizzerà anche nelle sue opere future. Le donne di Fassbinder, soprattutto, sono le protagoniste della riflessione del regista sulla crisi dei presupposti culturali su cui si stava costruendo la società occidentale nel dopoguerra. Tuttavia, Fassbinder era anche un “maestro della crudeltà” e concepiva l’amore come un elemento oppressivo, frutto dei tirannici rapporti di forza che nascevano nella società capitalistica. Guadagnino fa convivere l’influenza dell’autore tedesco con la concezione dell’amore di Jonathan Demme, autore che entra a più riprese in Io sono l’amore. Il titolo del film è, infatti, una citazione della frase che pronuncia Tom Hanks in Philadelphia nella celebre scena in cui commenta l’opera Andrea Chénier cantata da Maria Callas. La scena è presente anche nel film di Guadagnino: Emma sta guardando il film di Demme in televisione e nel climax della scena Tancredi cambia canale sul Maurizio Costanzo Show. Philadelphia, tra i film preferiti del regista italiano, è un manifesto all’amore inteso come strumento di libertà e di riscatto. Il film è fondamentale per intuire la traiettoria dell’azione finale di Emma: nella melodrammatica fuga dalla villa di famiglia, Guadagnino restituisce la libertà alla sua eroina e contemporaneamente sintetizza il pensiero cinematografico e il dispositivo narrativo di due tra i suoi autori più amati.
Io sono l’amore, dunque, porta la riflessione critica oltre l’interrogazione sul linguaggio del cinema e segna l’inizio di un lavoro di confronto tra film diversi, ripensati in un film del tutto nuovo. Io sono l’amore mimetizza la sua ibridazione con altri testi, ma continua ad essere coerente con la poetica degli esordi, aumentandone il grado di complessità. L’efficacia di questo approccio nella lettura del reale è indiscutibile: un film sulla crisi delle società liberali e sulla celebrazione del potere femminile, pensato e realizzato oltre quindici anni fa, era inevitabilmente destinato a incontrare una forte reticenza nei confini nazionali, dove purtroppo spesso il cinema non è stato capace di leggere lucidamente i processi storici in cui era coinvolto. Il dialogo intertestuale introdotto da Io sono l’amore è uno spartiacque che preannuncia quelli che avverranno nei lavori successivi, a partire da A Bigger Splash (2015).
La riscrittura sovversiva di altri testi: una nuova idea di remake
A Bigger Splash è il remake de La piscine (1969) di Jacques Deray, ma si propone come un’operazione diversa dal classico rifacimento: non una pratica industriale che mira ad omaggiare un testo preesistente per elevarlo alla statura di classico, bensì il tentativo di compiere un nuovo e personale atto di enunciazione (10). Per fare questo, il film propone una ricontestualizzazione spaziale e temporale degli eventi: dalla villa con piscina in Costa Azzurra negli anni Sessanta, a una tenuta collinare a Pantelleria tra il 2010 e il 2015. Qui la rockstar Marianne (Tilda Swinton) e il suo compagno Paul (Matthias Schoenaerts) si ritirano lontani dai riflettori, tra un bagno al mare e un’escursione sull’isola: un idillio pronto ad essere turbato da Harry (Ralph Fiennes), eccentrico produttore discografico ed ex compagno di Marianne, che piomba sull’isola insieme a sua figlia, la seducente e ambigua Penelope (Dakota Johnson). La premessa è la stessa del film di Deray, ma la diversa collocazione spazio-temporale e il sistema di referenze del regista è più complesso. Anzitutto, il titolo: A Bigger Splash è il quadro del pittore David Hockney conservato alla Tate Gallery di Londra, dove viene rappresentato il profilo geometrico di una villa californiana con piscina, dove tutto è ordinato se non per gli schizzi che emergono dall’acqua, in prossimità di un trampolino. Qualcuno si è appena tuffato, ma non ne vediamo la figura umana, bensì la conseguenza dell’impatto con l’acqua. L’opera di Hockney, nel lavoro del regista, assume ancor più rilevanza se si considera la nuova versione del film presentata da Luca Guadagnino e Walter Fasano al Goteborg Film Festival nel 2023. Come segnala Pietro Masciullo, questa – dal titolo An Even Bigger Splash – presenta un incipit diverso dalla precedente, in cui si entrava immediatamente nella vicenda. In questo caso, il film inizia alla Tate Gallery e si sofferma su una ragazza che guarda il dipinto A Bigger Splash; la macchina da presa stringe lentamente sull’opera dell’artista con un carrello in avanti, mostrandocela. Nella scena successiva, un campo lungo mostra una piccola barca proveniente dalle coste africane e diretta a Pantelleria. Dopo uno stacco di montaggio, la scena mostra un dettaglio dei piedi di Paul intento a tuffarsi in piscina. Le tre scene anticipano i livelli in gioco nella narrazione a venire. Lo sconvolgimento della calma immobile di Paul e Marianne da parte di Harry e Penelope, è soltanto lo “splash” più evidente nel film. Il secondo, marginalizzato ma più profondo, è la presenza dei migranti al largo dell’isola. Privi di implicazioni narrative dirette, i migranti sono il fantasma che si affaccia sul racconto: ne parlano la televisione, gli abitanti dell’isola, ed entrano in scena come un elemento straniante in alcuni momenti del film. I flussi migratori dall’Africa sono l’osceno fuoricampo, una fulminea irruzione della Storia nell’intrigo sentimentale al centro del film, che ne complica la decifrazione. Da più parti la critica ha definito accessoria e infelice la scelta di rappresentare in questo modo il fenomeno migratorio; al contrario, come i recenti studi critici hanno evidenziato, lo straniamento derivante da questa scelta “incrina la superficie glamour delle vicende dei personaggi”, per restituire una visione più ambigua e complessa di quanto apparentemente rappresentato, la cui provocatorietà ci spiazza e disorienta (11). A Bigger Splash ridefinisce il remake come la riscrittura di un testo cinematografico che assorbe in sè altri testi provenienti da linguaggi espressivi diversi. In Io sono l’amore dialogano le strutture del melodramma di Fassbinder con lo spirito di Philadelphia di Jonathan Demme, qui si riscrive La Piscine tenendo in sovrimpressione un dipinto di Hockney; in entrambi i casi, la combinazione tra diverse forme espressive lascia entrare la realtà storica dalle porte lasciate aperte.
Soltanto in questa luce è possibile comprendere quanto sia preziosa e illuminante l’affermazione di Silvestri secondo cui i film di Luca Guadagnino sono dei “critofilm” e come Suspiria (2018) ne sia il caso esemplare. Guadagnino consolida un approccio al cinema che nasce con The Protagonists e che nella tornata di anni tra A Bigger Splash e Chiamami col tuo nome (2017) diventa solido al punto da confrontarsi col film di Dario Argento, su cui a lungo il regista ha fantasticato e lavorato. Il Suspiria firmato da Luca Guadagnino vede la luce nel 2018 e come per A Bigger Splash si presenta con una riconfigurazione spaziale da Friburgo a Berlino, ma questa volta resta inalterata la data di svolgimento dell’azione, il 1977. La scelta ha conseguenze molto più profonde rispetto al precedente remake, perchè consente al regista di avere mano libera e muoversi in una molteplicità di discorsi storici, politici e culturali che concorrono alla realizzazione del film. Il nuovo Suspiria storicizza i propri personaggi in un anno specifico, dove in Germania convivono l’esperienza degli atti terroristici della banda Baader-Meinhof, il latente senso di colpa collettivo della Shoah (incarnato dal personaggio del professor Klemperer) e il successo del movimento femminista europeo. Le diverse espressioni della body art, la danza, l’antiteater fassbinderiano prima, e il suo cinema dopo, indagano e svelano l’ipocrisia delle nuove società post-belliche, sedotte da un’idea di progresso e impegnate a costruire un sistema capitalistico che mercifica sia l’arte sia il discorso politico. Le streghe messe in scena da Luca Guadagnino incarnano, così, lo spirito del proprio tempo; sono danzatrici moderne, a metà tra il lavoro di Pina Bausch (Madame Blanc ne è un esplicito omaggio anche nella caratterizzazione fisica) e le performance femministe di Gina Pane, o i riti misterico-catartici di Hermann Nitsch e degli azionisti viennesi. All’ombra della prestigiosa accademia berlinese, le danzatrici nascondono la loro attività stregonesca e sovversiva che portano avanti da moltissimi anni; inoltre, la compagnia è dominata da una leadership al femminile che si trova in una crisi di consenso e in una lotta di potere interna. Le streghe ri-messe in scena da Guadagnino hanno, insomma, una concretezza storica straordinaria, che conferisce loro una problematicità e una profondità di destino ben diversa da quella delle streghe di Argento. Nel rifacimento di Suspiria i linguaggi espressivi che hanno creato un immaginario degli anni Settanta in Germania (e nell’Europa tutta) vengono assimilati e restituiti in un film che dopo quarant’anni riecheggia il difficile rapporto della società europea con la propria Storia e un femminismo che rifiutava il sistema capitalistico, mettendo al centro della scena il corpo. In una Berlino autunnale e malinconica prende forma una personale riscrittura che crea un ulteriore scarto e determina l’eccezionalità dell’esperienza Suspiria nella cinematografia del regista fino a quel momento: è l’urgenza autobiografica la forza sotterranea, il desiderio pulsante che guida tutte le scelte del film. Guadagnino non ha mai nascosto lo “shock” subito alla visione di Suspiria da adolescente, e il potere ossessionante che il film ha esercitato su di lui da quel giorno. Siccome l’uomo è fedele al ragazzino che è stato, l’emozione primaria della visione argentiana del film è l’elemento palpitante che restituisce il senso non soltanto dell’opera, ma di tutto il gesto del filmare: Suspiria è la trasposizione di un’emozione nata al cinema e restituita al cinema, che nel mezzo si è arricchita di altre visioni, altri incontri, lunghe riflessioni storiche e cinematografiche, fondamentali per costruire l’itinerario di un cinefilo. “Non è violenza, è amore”, diceva Lea Vergine al giovane regista quando la interrogava sulla rappresentazione della violenza nella body art. Sotto la riflessione sulle radici storiche del male, “è amore” anche Suspiria 2018: è un atto d’amore verso l’emozione di un bambino, un atto d’amore verso l’arte, il gesto del cinema inteso come gesto d’amore.
Il critofilm definitivo: Queer
Nel film Made in England: i film di Michael Powell ed Emeric Pressburger (2024) c’è una considerazione interessante di Martin Scorsese in merito alla trasposizione dei Racconti di Hoffmann (1951) della leggendaria coppia di registi britannici: “Uno dei mantra preferiti di Michael era “L’arte è una sola” perchè credeva di poter inserire letteratura, musica, danza, recitazione e scenografia in un film, per creare una sorta di “cinema totale” che trascendesse le arti tradizionali”. L’affermazione diventa un interessante punto di partenza per parlare di Queer (2024). Nel mettere in scena l’immaginario letterario di Borroughs – dunque non solo Queer, dice Guadagnino, ma anche Junky, Ragazzi Selvaggi e gli altri romanzi dell’autore – il regista sposta il suo consueto lavoro di assimilazione e critica dei testi verso un’idea di “cinema totale” dove la guida, come in Suspiria, è l’incontro d’amore autobiografico che il regista ha avuto con il romanzo in età tardo adolescenziale. Ancor più che con il testo di Argento – dove la carica emotiva si nasconde sotto la superficie dell’horror – Queer rende esplicita l’emozione che Guadagnino sente nei confronti del testo di partenza. L’ossessione amorosa di William Lee per Eugene Allerton riflette così un discorso su quella “magnifica ossessione” che è il cinema stesso; Guadagnino mette in secondo piano la sua preferenza per gli spazi reali e rappresenta Città del Messico negli studi di Cinecittà, attraverso una costruzione dello spazio precisa ma miniaturizzata, dunque capace di evocare il sentimento di un luogo specifico: il luogo del cinema. Su questo palcoscenico va in scena un’ode ai film fondamentali della sua vita: l’amore disperato di Lee nei confronti di Allerton riprende nuovamente le ricostruzioni moderniste del melodramma fassbinderiano, ma la colonna sonora melò ricorda più tradizionalmente la fonte, i film di Douglas Sirk; nelle sequenze oniriche si combinano l’utilizzo espressionista del colore di Scarpette rosse (1948) e Narciso nero (1947) – Powell e Pressburger sono un riferimento dichiarato – e le surrealiste atmosfere lynchiane. Soprattutto, nel secondo capitolo (il film è diviso in tre capitoli e un epilogo) dove Allerton e Lee viaggiano in Sud America, Queer si fa esplicita riscrittura di Tè nel deserto (1990) di Bernardo Bertolucci, il grande film beat dell’autore preferito del regista, che viene rimesso in scena nel film più intimo, ad oggi, tra quelli di Luca Guadagnino.
Queer inizia sulla falsariga di Chiamami col tuo nome con una rassegna di oggetti incorniciati insieme ai titoli di testa, accompagnati a loro volta da una cover di All Apologies dei Nirvana. Sia in Queer sia in Chiamami col tuo nome, gli oggetti significano già di per sé: sono il segno della storia a cui stiamo per assistere. I due film condividono anche un simile utilizzo dei brani musicali, che si configurano come “personaggi-ombra” in grado di suggerire ciò che non possiamo vedere sensibilmente. Ad esempio, in Queer, Leave me alone dei New Order accompagna il primo piano su Lee nel momento in cui assume la dose di eroina a cui aveva rinunciato nella speranza di disintossicarsi. Come accadeva nel finale di Chiamami col tuo nome – Elio in primo piano davanti al camino sulle note di Visions of Gideon – questo utilizzo del primo piano fissa, attraverso l’apparato estetico del cinema, un sentimento universale che trascende la contingenza del soggetto rappresentato. L’idea di utilizzare brani musicali anacronistici ma consonanti rispetto al contesto diegetico – probabilmente la musica del Guadagnino ventenne – accomuna condizioni esistenziali che comunicano in tempi diversi, in una linea immaginaria che collega gli anni Cinquanta e gli anni Novanta.
Nella trasposizione di Queer, Guadagnino conduce un’audace sperimentazione visiva e narrativa che dà concretezza al “desiderio di contatto” di Lee, indicato da Borroughs nel romanzo di partenza. La sovrimpressione sulla figura del protagonista di un’immagine fantasmatica che compie i gesti d’amore altrimenti trattenuti, traduce il linguaggio letterario e dà forma alla scissione esistenziale di Lee: “I’m not queer. I’m disembodied”. Ancora più significativa è la straordinaria scena in cui la pelle e le ossa dei due amanti si fondono fino a formare un’entità unica e indistinta dopo aver assunto lo yage, una sostanza psicotropa in grado di indurre la telepatia. Attraverso una serie di inquadrature che si confrontano esplicitamente con i corpi del body-horror di David Cronenberg – che da Borroughs aveva adattato The Naked Lunch – Guadagnino mette in scena una nuova coreografia che richiama alla mente le danzatrici di Suspiria, e in cui prende vita, definitivamente, non solo il desiderio di Lee, ma anche una forma cinematografica che trascende e assorbe tutte le altre arti.
Queer è allora il “critofilm” definitivo: il testo letterario adattato attraverso una riscrittura dei film preferiti del regista e che attraversa i propri stessi film per arrivare al grande pubblico. Il motore del lavoro è sempre un incontro d’amore di gioventù, che abbraccia e riscalda le immagini che guardiamo sullo schermo. È soprattutto, oggi, la grande conquista di un lavoro aperto ad ulteriori sperimentazioni, ma che si pone già come una delle novità più importanti degli ultimi anni.
NOTE
1R. Silvestri, Suspiria di Luca Guadagnino, la crudele storia d’amore tra Fassbinder e Dario Argento, in «Il Ciottasilvestri. Rivista Online», 2 Gennaio 2019, consultabile a: http://ilciottasilvestri.blogspot.com/2019/01/suspiria-di-luca-guadagnino-la-crudele.html
2M. Ciotta, R. Silvestri, Intervista a Luca Guadagnino, in «Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino», a cura di S. Emiliani, C. Ermini, Venezia, Marsilio, 2024, p. 19.
3Ivi, pp. 19-20.
4S. Daney, Il carrello di Kapò, in «Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo raccolte da Serge Toubiana», Milano, Editrice Il Castoro, 1995, p. 24.
5Su questo tema, si vedano L. Strano, Challengers, in «Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino», a cura di S. Emiliani, C. Ermini, Venezia, Marsilio, 2024, pp. 278-284. e D. Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, Roma, L’Unità/Il Castoro, 1995, pp. 11-13.
6G. Raganelli, The Protagonists, in «Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino», a cura di S. Emiliani,
- Ermini, Venezia, Marsilio, 2024, p. 193.
7Ivi, p. 195.
8M. Pagani, Ep. 45 – Luca Guadagnino. Dicono di te, Chora Media, 8 Maggio 2024, consultabile a: https://www.youtube.com/watch?v=UFXgfHthGnE&t=989s
9Per maggiori approfondimenti sulle riscritture moderniste del melodramma sirkiano da parte dell’autore tedesco si veda Davide Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, Roma, L’Unità/Il Castoro, 1995, pp. 30-43, pp. 49-64.
10P. Masciullo, Call me by your eyes. Il remake come atto critico-trasformativo, in «Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino», a cura di S. Emiliani, C. Ermini, Venezia, Marsilio, 2024, pp. 114-124.
11Ibid.
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